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Gaetano Masuzzo

Gaetano Masuzzo

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Vizi e virtù dei Piazzesi

Piazza Armerina, Folla in Piazza Garibaldi, 1940

VIZI E VIRTU' DEI PIAZZESI
Nel 1654 il concittadino Antonino Chiarandà (1611-1666), giudice, studioso ed esperto di diritto, sacerdote e commissario ordinario del Sant’Uffizio, nonché giurato e sindaco di Platia, fa pubblicare a sue spese la Storia di Piazza, scritta dal fratello minore Giovanpaolo (1613-1701), padre professo e rettore preposito del nostro Collegio dei Gesuiti nel 1648 e nel 1661. Tra le tante fonti utilizzate dal Chiarandà, ci sono quelle di altri due piazzesi, il medico e scienziato Francesco Negro¹ e il francescano Marco Alegambe². È proprio da questi e soprattutto dal primo, che il Chiarandà apprende, per poi riportarli nella sua opera, le notizie sui costumi, i vizi e le virtù dei nostri antenati a cavallo dei secoli XV, XVI e XVII, del tutto identici a quelli dei nostri tempi. Ecco cosa scrive Giovanni Paolo Chiarandà nella sua opera³:

COSTUMI DE’ PIAZZESI
«Il benigno aspetto del Cielo, e l’amenità dello stato di Piazza, quali costumi habbia dà ingerire, il sappiamo dagl’antichi. Francesco Negro nella sua historia di Piazza scrive. I Piazzesi sono Acuti d’ingegno, Adulatori, Superbi, che l’uno non crede all’altro, Desiderosi di novità, Invidiosi, Facili alla vendetta, Stuzzicati facili alla colera, parlano con due lingue Nativa, e Siciliana, Amici della Campagna, Diligenti in accumular denari, e robbe, altrove così dice, Tolomeo vuole che l’influsso celeste, e qualità delle regioni della terra produca e nudrisca diverse complessioni d’huomini: e’l prova coll’essempio delle piante, che trapiantate in altre regioni, perdono l’antica sua natura, d’onde avviene, ch’ogni Città è soggetta alle sue proprie passioni, virtù, ò vitii, secondo la natura del paese; dalla qual lege non può alcuno essere esente, ne meno la nostra Piazza, nel conservar costumi à suoi figliuoli, corrispondenti alla bontà, perfettione dell’aere, che mostrano le piante: e per esser meridionale diviene più atta alla nutrizione; onde per ordinario i Piazzesi sono di corpo più presto grande, che picciolo, di color frumentino, sono Arguti, e Astuti nel parlare, sottili nell’inventare, Prudenti nel governare, Letterati in ogni scienza, Desiderosi di sapere, Periti in tutte l’arti, Desiderosi d’esercitarsi nell’armi, Amici de’ forastieri, fra loro Nemici, e Invidiosi, Facili all’ingiurie, e più alla vendetta, e per l’abbondanza del paese, i rustici sono Indomiti, che havendo pane abbondante; ò per la facilità di ritrovarlo, ò perche sono di natura superbi, non stimano ad alcuno. Così Francesco Negro, ma l’Alegambe, scrive alcun’altre particolarità, dicendo che l’inclinatione, o istinto naturale de’ Piazzesi si cava dalla natura del Clima, o zona, sotto la quale vive Piazza, con l’elevatione del Polo eminente come tutti gl’altri del Regno: Ma perche il nostro astrolabio, mai potrà arrivare all’osservationi, che intorno à questo fece quel grande indagatore de’ segreti della natura, Francesco Negro, compatriota nostro, che morì nella cima di Mongibello, per investigare le meraviglie di quel fuoco, di cui fà mentione honorata Fazello: però alla sua astrologia n’atterremo, e solamente quello scriveremo, che questo grand’huomo registrò nella sua historia, e compose di Piazza, intorno à costumi de’ suoi Concittadini, sono dunque arguti, dice, e ben il dimostrò, quel Fra Bartolomeo di Piazza Francescano; mandato dà Siciliani, contato già il Vespro Siciliano, al Re Carlo d’Angiò in Calabria, con l’argutia, che usò rispondendo al Re (come si disse à suo luogo.) Quanto fedeli siano i Piazzesi, il dimostrano i casi seguiti con i Prencipi, nelle considerazioni, con Giovanni Branciforte, con Ruggieri lo Schiavo, con Corrado Lancia, e altri. Dedicati alla militia, come quelli, che discendono dà Soldati Greci. Così l’Alegambe. e questo ancora basti à noi, che per osservare le legi historiali, habbiamo il bene, e’l in questo luogo raccolto».

Costumi dei Piazzesi
«Il bel paesaggio, le attrattive e i costumi di Piazza li conosciamo dagli antichi. Francesco Negro nella sua storia di Piazza scrive: “I Piazzesi sono acuti d’ingegno, adulatori, superbi, così tanto che l’uno non crede all’altro. Desiderosi di novità, invidiosi, facili alla vendetta. Stuzzicati, sono facili alla collera, parlano due lingue, la nativa e il siciliano. Amici della campagna sono diligenti ad accumulare denaro e proprietà”. In altre pagine il Negro continua: “Tolomeo vuole che l’influsso celeste e le qualità delle regioni terrestri influiscano sul carattere degli uomini. Come accade per le piante che, trapiantate in altre regioni, perdono l’originale natura, così accade per ogni città che assume le proprie passioni, virtù o vizi, secondo l’ambiente in cui si trova. Questa è una legge a cui nessuno può sottrarsi, nemmeno la nostra Piazza che nel tramandare usanze, abitudini e modi di vivere ai suoi figli, come la bontà e la qualità dell’aria, fa come le piante, le quali per essere presenti in meridione, facilitano la nutrizione. Per questo motivo i Piazzesi sono di costituzione più grandi che piccoli, di carnagione biondo dorato, arguti, astuti nel parlare, sottili nell’inventare, prudenti nel governare, colti, desiderosi di apprendere, competenti in tutte le arti, volenterosi nell’esercitarsi con le armi e amici dei forestieri. Tra loro sono nemici e invidiosi, facili alle ingiurie e alla vendetta. Per la copiosità delle coltivazioni i contadini sono forti e tenaci, tanto che avendo cibo in abbondanza, sia per la facilità di reperirlo, sia perché sono superbi, non stimano alcuno”. Così ci informa il Negro, mentre l’Alegambe scrive altre particolarità dicendo: “L’inclinazione o l’istinto naturale dei Piazzesi deriva dal clima del luogo in cui si trova Piazza, come tutti gli altri centri abitati del Regno. Però, dato che il nostro modo di osservare, mai potrà arrivare al livello di quello del grande indagatore dei segreti della natura, Francesco Negro, nostro concittadino, che morì in cima all’Etna, per investigare le meraviglie di quel fuoco, di cui il Fazello ne fa onorata menzione, noi ci atterremo alle sue osservazioni e scriveremo qui, ciò che questo scienziato scrisse e compose nella sua storia di Piazza intorno ai costumi dei suoi concittadini: “sono dunque arguti, dice, e ben lo dimostrò quel frate francescano Bartolomeo da Piazza che, mandato dai Siciliani al tempo del Vespro Siciliano, presso il re Carlo d’Angiò in Calabria, usò rispondere con arguzia al Re. Alla domanda di questi “quanto fedeli siano i Piazzesi”, il frate rispose “lo dimostrano i comportamenti da discendenti dei soldati greci fedeli ai sovrani, di Giovanni Branciforte, Ruggero Sclavo, Corrado Lancia e altri”. Così l’Alegambe, e questo ci deve bastare, in quanto spiega come storicamente il bene sia presente in questo luogo».

¹ Francesco Negro o Nigro, nato a Piazza prima del 1479 morì sull’Etna il 24 marzo 1536. Medico, filosofo e sommo cultore delle scienze fisiche, astronomiche e chimiche, divenne geologo e scienziato di gran fama. Si trovava sull’Etna, spinto dallo studio della vulcanologia, per controllare da vicino un’imponente eruzione del vulcano, quando trovò la morte perché colpito da un lapillo, precipitò nel magma incandescente. Lasciò un manoscritto sulla storia di Piazza, spesso menzionata dal Verso, Alegambe e Chiarandà, una monografia di storia naturale e un trattato sui vulcani e sulle cause delle eruzioni e dei terremoti. Pubblicò un corso di epistole, nelle quali encomia le dottrine di alcuni sapienti piazzesi e rilevò, con precise distanze matematiche, la pianta dell'Etna con le rispettive altitudini e strutture (L. Villari, Storia della città di Piazza, 2013; T. Fazello, De rebus siculis, 1560; A. Roccella, Storia di Piazza, Uomini Illustri, ms., sec. XIX).

² Marco Alegambe o Ligambi o Li Gambi, nato a Piazza nel 1578 morì a Siracusa nel 1647. Frate minore osservante, fu filosofo, teologo e storico, lasciandoci nel 1640 una Storia di Piazza. Nei primi anni del Seicento, come padre guardiano del  convento francescano di San Pietro, abbellì e ampliò di nuove cappelle la chiesa (A. Roccella, Storia di Piazza, Uomini Illustri, ms., sec. XIX).

³ Chiarandà Giovan Paolo, Piazza città di Sicilia antica, nuova, sacra e nobile, per gli'Heredi di Pietro Brea, Messina 1654, libro II, cap. X, pp. 140-141. L'opera è composta da quattro libri: Piazza Antica, Piazza Nuova, Piazza Sacra e Piazza Nobile.

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Storie e superstizioni piazzesi

Da una storia realmente accaduta. Tratta da un manoscritto, è stata rispettata la scrittura e la punteggiatura originale, ma i nomi sono stati cambiati.

«Nel 1594 l’abitante a Platia Fernando de Rivera, dal 1591 barone di Rigotello e sposo dal 1589 di Catarina Alterco, pel servizio militare a re Filippo contribuì con tre cavalleggeri e due muli per trasporto e i cavalleggeri furono assoldati ad onze 20 l'anno alla scarsa (senza vitto). Popolare tradizione afferma che il barone de Rivera per dissoluta e scandalosa vita non pensò ravvedersi alle esortazioni dei preti e di fra Giacomo Raimondi da Spinagallo e morì nel 1617 senza religiosi conforti. Allora alle sobillazioni clericali la superstizione esagerata fece credere al popolo che pria di morire il barone de Rivera, anima e corpo, era stato portato dai diavoli in forma di mostri nel largo della chiesa Santa Maria di Gesù ed era stato buttato in un pozzo che era in quel piano e che riteneasi una bolgia d'inferno. Allora, sul pozzo anzidetto, i frati riformati francescani del finitimo cenobio alzarono una piramide in fabbrica sormontata di una croce e nel lato orientale formarono una cappella scolpendo sopra l'imagine della Vergine e sotto di questa dei demoni che buttano un uomo ignudo col capo in giù in un fosso, simboleggiando quel malcapitato il barone de Rivera. Tuttora, il popolo passando nanti la piramide, saluta l'imagine e ricorda esser quello il sito pel quale il de Rivera fu buttato nell'inferno per la scandalosa vita. Ritengo che nel 1617 quando il barone Fernando de Rivera moriva che fu privo dei religiosi conforti perché colto improvvisamente e, trovandosi in illegittimo amore, ritennesi morto nel peccato e, secondo la legge del tempo, gli fu negata la sepoltura in chiesa ed i parenti lo fecero inumare nel piano della chiesa Santa Maria di Gesù e i frati zoccolanti, approfittando, strombettarono al credulo popolo la fiaba demoniaca. L'inalzamento di quella piramide poi diede ai credi che una autenticità a quella gratuità inverosimile assertiva. Questo avvenimento l'intesi predicare a metà del secolo Ottocento nell'università di Palermo nell'occasione che faceansi agli studenti spirituali esercizi».

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Madonna degli Angeli ai Cappuccini

Fra' Cosimo da Castelfranco Veneto alias Paolo Piazza (1560-1620), Madonna degli Angeli, 1612 ca., Piazza Armerina, Chiesa Madonna delle Grazie o dei Cappuccini

A Piazza Armerina nella chiesa del convento dei frati Cappuccini, intitolata alla Madonna delle Grazie, è esposto un grande quadro sull’altare maggiore. La prima pietra per la costruzione del convento nei pressi della già esistente chiesetta della Madonna delle Grazie, nel piano che poi (dal 1695) sarà chiamato Sant’Ippolito, fu posta nel 1603 dal grande teologo e oratore, nonché ministro generale dei Cappuccini, San Lorenzo da Brindisi (Brindisi 1559-Lisbona 1619). Tre anni dopo i Cappuccini poterono stabilirsi nel nuovo convento che, ben presto, acquisì fama di perfetta osservanza e di studi. Tra il 1612 e il 1614, da Roma, il maestro pittore cappuccino fra’ Cosimo da Castelfranco Veneto, mandò le sue pale d’altare nelle chiese cappuccine d’Italia, ed è da supporre che proprio in quel lasso di tempo abbia inviato a Piazza Armerina la pala della Madonna degli Angeli. Era stato Paolo V (Camillo Borghese), papa dal 1605, a chiamare a Roma, nel 1611, fra’ Cosimo, perché applicasse alla pittura le decisioni riformatrici tridentine: le arti figurative erano state reputate dai teologi di efficacia narrativa e mnemonica superiore alla parola scritta, diventando il principale strumento di propaganda del prestigio della Chiesa. Prima di diventare frate nel 1597 e sacerdote nel 1601, Cosimo da Castelfranco era conosciuto come Paolo Piazza, nato a Castelfranco Veneto (Tv) nel 1560, artista affermatissimo nell’Italia centrale, settentrionale e in Europa ed esponente di spicco della pittura veneta tra i secoli XVI e XVII. Dopo aver lavorato per l’alta aristocrazia veneziana e aver girato l’Europa, accogliendo varie suggestioni culturali, tra le quali quelle di Giuseppe Arcimboldi (1527-1593) pittore ufficiale della corte a Praga e a Vienna,  fra’ Cosimo fu chiamato a Roma dal Papa, dove divenne il pittore delle chiese cappuccine sino al 1616, quando si trasferì per alcuni lavori a Terni, ad Amelia e a Foligno, per poi, nel 1618, tornare a Roma e, quindi, a Castelfranco. Nel 1620 morì a Venezia.
Il grande quadro di Piazza Armerina, dedicato alla Madonna degli Angeli, è l’evoluzione finale dell’Odigitria, cioè di una famosa icona bizantina dipinta da San Luca, che era stata inviata da Gerusalemme a Costantinopoli quale dono dell’imperatrice Eudossia, moglie di Teodosio II (408-450), a sua cognata, e che durante le persecuzioni iconoclaste fu gettata in mare da dove gli angeli la recuperarono. Sarà la stessa immagine che nell’VIII sec., durante l’assedio saraceno della capitale bizantina, due monaci bizantini porteranno in processione in riva al mare mettendo in fuga gli assalitori. La flotta poi fu prodigiosamente sommersa dai flutti di un’improvvisa tempesta marina e la popolazione fu salva. Il modello iniziale dell’immagine, portata in Sicilia da soldati siciliani di stanza a Costantinopoli al servizio dell’imperatore, che immortalava l’episodio con l’Odigitria posta in una cassa e portata sulle spalle da due Angeli, subì diverse trasformazioni prima con gli Angeli sostituiti da due Calojeri, monaci basiliani barbuti, poi con  i monaci assieme a due santi, gli angeli musici senza santi, i monaci con santi e coro celeste, sino allo schema con gli angeli musici ai lati della Vergine in trono e santi nella parte inferiore. Quest’ultima trasformazione fu quella che si diffuse maggiormente, divenendo lo schema canonico definitivo in Sicilia, al quale fra’ Cosimo da Castelfranco, alias Paolo Piazza, non volle sottrarsi.
Nella pala che si trova nella chiesa di Piazza Armerina vediamo in alto la Vergine che tiene in grembo Gesù Bambino, circondata sul capo, ai piedi e ai fianchi da angioletti festanti; un po’ discosti, uno a destra e l’altro a sinistra, vi sono due angeli musici. Lo spazio della parte inferiore del dipinto è diviso dal segno iconografico di due rami di palma, che tracciano quasi un semicerchio, che separa il Paradiso dalla terra. A destra della Vergine (a sx per chi guarda) c’è Sant’Ippolito martire, il cui attributo è appunto la palma, vestito da ufficiale romano. Accanto a Sant’Ippolito c’è San Francesco, per l’ovvio motivo che ci troviamo in una chiesa francescana. Inginocchiato accanto a San Francesco c’è San Giovanni Battista, come conferma del suo legame col Cristo, al punto che il cristiano non può pensare l’uno senza l’altro. Alla sinistra della Vergine (a dx per chi guarda) vi è Santa Caterina di Alessandria, martire anch’essa fornita del ramo di palma, che riveste un ruolo importante nella vita degli Ordini religiosi (Benedettini, Mendicanti e Agostiniani). Accanto alla Santa è raffigurato Sant’Antonio di Padova e davanti, seduto, appare San Girolamo, la cui presenza è spiegabile alla luce del clima controriformistico e al legame tra Sacre Scritture e vita ascetica. Ai piedi della Vergine, tra i santi Giovanni Battista e Girolamo, l’opera evidenzia la presenza di due angioletti, che offrono alla Madonna su un vassoio, la miniatura della città di Piazza Armerina in quei primi anni del Seicento¹, la cui pianta sarà stata inviata a Roma al pittore come bozzetto per la realizzazione di una grande torta architettonica, espediente che il Piazza aveva adottato anche in qualche tela a Praga. Il Piazza in questo quadro, che ha sicuramente bisogno di un restauro per poter ammirare i colori originali, si rivela uomo di talento, ma la sua fama dopo la morte si attenuò fino a che sbiadì il ricordo del suo nome. Soltanto nel 1936 il nome e l’opera di paolo Piazza torneranno alla ribalta della storia artistica, allorché il cappuccino padre Davide da Portogruaro pubblica una piccola monografia sull’artista, che firmava le sue opere o col suo nome e cognome per esteso o con quattro P. = P.P.P.P. (Paulus Piazza Pictor Pinxit).  (Tratto da Vittorio MALFA AMARANTE, La pala della Madonna degli angeli di fra Cosimo da Castelfranco a Piazza Armerina, in Archivio Storico della Sicilia Centro Meridionale, Rivista Società di Storia Patria Sicilia Centro Meridionale, Anno II, N. 3-4, Assoro 2015, pp. 148-151)

¹ È la prima delle due vedute della città di Piazza Armerina nel Seicento.

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Fontanella via Garibaldi Aidone/n. 23

Nella foto la Fontanella n. 23 del mio censimento. Si trova all'inizio della via Garibaldi ad Aidone, a pochi passi dalla piazza Umberto I, ove ha sede il Palazzo Comunale. Uscendo dal Palazzo, girato l'angolo subito a dx, si trova la fontanella in bella mostra. Questa cittadina ha tante cose che la legano a Piazza, a partire dalla lingua galloitalica. Michele Amari, grande arabista dell'Ottocento, quando riporta le città descritte nel Libro del re Ruggero del geografo arabo Edrisi (1099 ca.- 1165 ca.), ci fa sapere che la cittadina, nella prima metà del XII secolo, già era chiamata Aydùni. Tanti cittadini piazzesi avevano il cognome de Aydono o de Aidone, e il primo ad essere registrato a Placie è il milite P. de Aydona. Si tratta di uno dei 101 militi e nobili piazzesi, ai quali viene inviata, nel gennaio del 1283, la lettera di mobilitazione da re Pietro III d'Aragona (1239-1285), per la guerra contro l'invasione angioina (Guerra del Vespro). E, tra le altre cose, mi piace farvi sapere che Bonafemmina de Aydono, sposata col nobile piazzese Rainaldo de Spervaira, insieme alla figlia Graciona, nel 1334 si prodigano di far costruire la chiesa piazzese intitolata a Sant'Agata, nella zona accanto alla chiesa di Santa Maria Maggiore, attuando così le volontà del figlio di secondo letto Perrone de Deuluvolsi.

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