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Gaetano Masuzzo

Gaetano Masuzzo

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1230 Il Cavaliere Beato Gerlando d'Alemanna

 Il Cavaliere Ospedaliere Gerlando d'Alemanna

 Reliquiario Basilica di S. Giacomo, Caltagirone

Gerlando d'Alemanna, il Cavaliere Ospedaliere che divenne Beato 

La Sicilia all’inizio del XII secolo, tra la I Crociata (1096-1099) e la II Crociata (1145-1149), era passaggio obbligato per tutti coloro che dal continente si recavano in Terrasanta e bisognosi di ristabilirsi dalle fatiche del viaggio. Fu per questo che i cavalieri Templari (o cavalieri Poveri di Cristo o del Tempio di Salomone o Miles Templi o del Santo Sepolcro presso il Tempio di Gerusalemme), raccoltisi originariamente nel 1118, ma ufficializzati come Ordine Cavalleresco nel 1129, si insediarono nell’isola. Ciò lo dimostra la bolla di papa Lucio II del 1144, con la quale il Pontefice sollecitava la popolazione e i religiosi siciliani ad accogliere ed aiutare i cavalieri del Tempio. Da allora l’Ordine iniziò a ricevere in dono denaro e terre dislocate specialmente lungo l’itinerario seguito dai pellegrini palmieri¹ che, solitamente, trascorrevano l’inverno nell’isola prima di salpare alla volta della Terrasanta. Lungo l’itinerario siciliano i Templari possedevano una casa (o grancia) anche ad Aidone, dalla quale dipendevano un mulino e delle terre nei pressi del fiume chiamato Tempio (a circa 4,5 Km a Sud-Est dell’odierna Mirabella Imbaccari, lungo la provinciale n. 37/I Mirabella Imbaccari-S. Michele di Ganzaria) in onore dei Cavalieri, i quali vi costruirono (o trovarono) una chiesetta che chiamarono S. Maria del Tempio². Il fiume Tempio è l’antico Wâdi Bûkarît degli Arabi, il fiume Buffarito di G. P. Chiarandà, storico del Seicento piazzese, il fiume dei Provenzali di un diploma del 1148 e l’odierno fiume di Quattro Teste. Questo fiume nasce nei monti Erei aidonesi, scende verso Mirabella Imbaccari e attraversando la contrada Gatta (anticamente Agata) è detto fiume di Gatta, poi diventa Tempio e dopo qualche chilometro diventa Pietrarossa, poi Margherito, poi del Ferro, poi dei Monaci per confluire, infine, nel fiume Gornalunga che arriva sino alla foce del fiume Simeto. Poco dopo l’inizio del XIV secolo, precisamente nel 1312, papa Clemente V, dopo quattro anni di processi su tutti i membri e di condanne capitali ingiuste, decise l’abolizione dell’Ordine dei Templari, prescrivendo nell’occasione che i loro beni fossero devoluti alla Crociata in genere e specialmente ai Cavalieri Ospedalieri dell’Ordine Militare di S. Giovanni Battista di Gerusalemme (poi di Malta). Col passaggio dei beni dei Cavalieri Templari agli Ospedalieri, la Casa-Ospizio di S. Giovanni Battista di Piazza, ospedaliera, ereditò la Casa Templare di Aidone, comprese le pertinenze di S. Maria del Tempio. In quest’ultima località il percettore della Casa-Ospizio piazzese, per prendere possesso, custodire ed amministrare la chiesetta, il mulino e le pertinenze della località Tempio, inviò l’anziano cavaliere Ospedaliere Gerlando de Alemanna o Gerlando di Bologna, poi de Alemanna, e non come vogliono alcuni, erroneamente, d’Alemagna o di Polonia. Quest’ultimo nome è dovuto sicuramente al seguente errore: Bologna in latino Bononia, scritta nel XIV sec. dagli amanuensi Bolonia, che gli studiosi del XVII sec. leggono Polonia, rinvigorendo la convinzione di origine nordica del Cavaliere, che così spiegherebbe anche il primo nome, anch’esso errato, d’Alemagna. A proposito del cognome de Alemanna il Mugnos, parlando di nobili cittadini di Bologna giunti in Sicilia per porsi ai servigi dell’imperatore Federico II di Svezia, nomina un Nicolò Alemanni che con altri andò “per presidio nella città di Trapani”. In altra parte della sua opera precisa che Riccardetto Alemanno fu stradigoto di Messina nel 1249. Aggiunge ancora che sotto Carlo d’Angiò, nel 1268, un Giorgio Alemanno, conte di Pulchrivo, venne iscritto all’Ordine Equestre della Luna Crescente. Inoltre, Diego Ciccarelli, nel pubblicare documenti dei primi decenni del secolo XIV, segnala la presenza a Piazza del presbitero Giacomo de Alemanna, quindi di gente con cognome de Alemanna.
Nella chiesa di S. Maria del Tempio il cavaliere Gerlando operò da moderatore illuminato, da prezioso paciere nelle controversie e da uomo giusto che con amore si fece protettore delle vedove e dei bambini orfani, e allo stesso tempo si cimentò in aspre pratiche di penitenza, sino alla sua morte avvenuta dopo il 1312, ovvero verso il 1315, all’età di circa 85 anni (la data di nascita, 1230, si ricava dalla data certa del 1242, anno di ricezione del nostro Cavaliere nell’Ordine Ospedaliero del Priorato di Messina, in qualità di paggio, intorno ai dodici anni). Dopo 12 anni dalla sua morte, tra il 18 ed il 19 giugno 1327, a seguito di un sogno di Giacomo Calatafimi, precettore della Casa-Ospedale di S. Giovanni Battista di Piazza, ne venne riesumato il corpo e proprio in quei giorni ed in quelli successivi accaddero fatti straordinari attribuiti dai presenti a miracoli registrati con diligenza dai Giurati della città di Caltagirone. Il forte coinvolgimento per questi accadimenti da parte degli abitanti di questa cittadina, distante circa 5 Km dalla contrada Tempio, era dovuto al fatto che le terre, il mulino e la chiesetta del Tempio erano frequentati soprattutto da Caltagironesi, alla continua ricerca di luoghi ricchi d’acqua. Così questi ebbero la ventura di conoscere Gerlando de Alemanna, apprezzandone la santità di vita. Dopo la morte furono loro a divulgare le notizie su fatti soprannaturali che si erano manifestati nella chiesetta di S. Maria del Tempio, facendoli registrare nel 1327 a Caltagirone in atti notarili della Corte Giuratoria, ai quali seguirono gli atti di un processo apostolico effettuato nel 1331 a Licata dal Vescovo di Agrigento per incarico di quello di Siracusa. Il processo di canonizzazione in seguito si sarebbe arrestato alla Dichiarazione di Beato³. Solo così si può spiegare il grande fervore del popolo, dei Giurati e del Clero di Caltagirone che, a gran voce, chiesero ed ottennero il trasferimento del corpo del Beato dalla chiesetta di contrada Tempio nella basilica di S. Giacomo Maggiore della loro città, ove un prezioso reliquiario antropomorfo del XIV sec. (foto in basso) custodisce, ancora oggi, il cranio del Beato Cavaliere Ospedaliere Gerlando de Alemanna ritenuto piazzese perché <<confortato in merito dalla presenza a Piazza in quel tempo di gente cognominata De Alemanna>>. Gaetano MASUZZO, gennaio 2012

 ¹ Coloro che si recavano presso il Santo Sepolcro di Gerusalemme erano chiamati palmieri, perché al loro ritorno portavano per testimonianza la palma di Gerico. 

² <<Un manoscritto anonimo del XVII secolo, conservato a Malta, restituisce un acquerello con rappresentazione panoramica “a volo d’uccello” del territorio di S. Michele di Ganzaria, arrivando a descrivere anche il feudo del Tempio e la chiesa dei Templari, dall’aspetto vagamente gotigheggiante, forse già in decadenza all’epoca del dipinto. Alcune “vignette” intorno alla chiesa di S. Maria rappresentano dei mulini: quattro di essi recano sul prospetto la croce di Malta, ma di essi non rimane traccia. Tracce di una fortificazione sono state segnalate da studiosi locali in un colle a Nord di S. Michele di Ganzaria, nei pressi del quale si trovava la chiesa, identificata in pochi ruderi rimasti>>. (G. ORRIGO, 1984; BUONO, 1993; dal sito calatinosudsimeto.it/Cultura/Comune di San Michele di Ganzaria/Contrada Tempio)

³ Il Servo di Dio dopo la lettura del Decreto sull'eroicità delle sue virtù viene chiamato Venerabile. Se a questi viene riconosciuta l'intercessione per un miracolo è dichiarato Beato. Se al Beato viene riconosciuta un'altra intercessione, il Papa lo dichiara Santo, autorizzandone il culto ovunque vi sia una comunità di credenti.

cronarmerina.it


 


 

L’Epigrafe della Biblioteca di Piazza

Chiostro dei Gesuiti sede della Biblioteca Comunale

Ingresso ex Sala del Coro del Collegio dei Gesuiti

 L'epigrafe in marmo sulla porta dell'ex Sala del Coro

L’Epigrafe della Biblioteca di Piazza, un antico baluardo della cultura

Nei primi anni del XVII secolo a Piazza Armerina, allora Platia (in qualche documento, anche Platea), esistevano ben quattordici tra Monasteri, Conventi, Case Professe e Commende degli Ospedalieri maschili, e sette tra Monasteri, Conventi e Ritiri femminili. La popolazione della città era di oltre 16.000 abitanti (rivelo del 1593) e tra questi c’erano un marchese, quattro conti e trentotto baroni. Inoltre, 100 circa erano i sacerdoti, che officiavano nelle quasi cento chiese presenti nel territorio intra moenia ed extra moenia (93 erano le chiese presenti nella relazione “ad limina” del 1655). La conferma dell’alto prestigio della comunità piazzese di allora arrivò col titolo di Spettabile (1), concesso nel 1612 da re Filippo III d’Asburgo, ovviamente dietro il pagamento di 10.000 scudi dalla Giurazia(2). Dato che uno scudo di allora valeva all’incirca 72 € di oggi, per quell’enorme cifra il Re, insieme al titolo, concesse la possibilità di amministrare oltre la giustizia civile anche quella penale (mero e misto imperio) attraverso il Tribunale dei Tre Giudici. Da questo quadro di quattro secoli fa si deduce che la prosperità economica era prerogativa dei numerosi nobili, mentre ogni attività culturale era monopolio ecclesiastico e in particolare del monachesimo. Questa situazione consolidava sempre più la consuetudine dei monasteri e dei conventi di essere importanti centri di diffusione culturale, in cui il libro occupava un posto di primo piano. Infatti, “Nella Regola di San Benedetto era prescritto l'obbligo della lettura in vari momenti della vita del convento; il monaco aveva fra le mani il libro nel coro, al refettorio, nella cella, compagno fedele della giornata. Fin dai primi tempi della fondazione delle abbazie era prevista la presenza di una biblioteca. Era scritto: Claustrum sine armario sicut castrum sine armamentario (un monastero senza biblioteca è come una fortezza senza armeria). Collegato alla biblioteca era lo scriptorium, dove si svolgeva il lavoro di copiatura e di miniatura dei manoscritti da parte dei monaci amanuensi: con la loro attività di trascrizione dei codici, furono il più importante strumento di conservazione del patrimonio culturale della classicità.”(3)
I monasteri e i conventi di Platia non facevano eccezione e custodivano nelle loro biblioteche oltre alle centinaia di manoscritti e testi del ‘300, anche numerosi documenti stampati con la tecnologia dei caratteri mobili, chiamati incunaboli, della seconda metà del ‘400 (quattrocentine) e del ‘500 (cinquecentine). Le opere trattavano temi che spaziavano dalle scienze teologiche alla filosofia, al diritto, alla grammatica, alla medicina e alla storia.
Ovviamente queste case di religiosi erano esposte di continuo a incendi, saccheggi, o più semplicemente a furti che decimavano il patrimonio librario e, come se ciò non bastasse, l’umidità, i topi e, alcune volte, il dare alle fiamme il materiale contenuto nelle celle dei monaci, morti durante le soventi epidemie, riducevano in poltiglia o in cenere migliaia di preziosi volumi, alcuni addirittura pezzi unici.
Se per le calamità naturali c’era poco da fare, per quelle dovute all’incuria e alla negligenza dell’essere umano, oltre ai semplici avvisi scolpiti sopra gli ingressi(4), venivano escogitate misure di vario genere, sempre più perentorie, e una di queste erano le “bolle pontificie” o “bolle papali”. Queste erano delle comunicazioni ufficiali in forma scritta, emanate dalla Curia Romana col sigillo del Papa. Il sigillo era un pendente metallico (in latino bulle, il cui termine è poi passato a indicare l’intero documento = bolla) generalmente di piombo, ma in occasioni molto solenni d’oro, e veniva legato mediante cordicelle di canapa annodate praticando dei fori nei documenti(5). Questi essendo in pergamena non potevano essere esposti per molto tempo, pertanto venivano riportati in riassunto (compendium) scolpiti su delle lapidi di marmo, da murare in ben evidenza, nei luoghi per i quali era stata emanata la Bolla.
Una lapide su cui è scolpita l’epigrafe di una Bolla Papale, del genere sopra descritto, l’abbiamo a Piazza, alla Biblioteca Comunale (foto in alto) intitolata ai fratelli Alceste e Remigio Roccella(6). L’epigrafe in latino è murata nella cornice in pietra arenaria posta sulla porta dell’ex Sala del Coro del Collegio dei Gesuiti, in seguito anche Oratorio della Confraternita dei Nobili, e sormontata da quello che doveva essere lo stemma dell’Ordine dei Gesuiti, ormai completamente logoro (foto in mezzo). La lapide di marmo (foto in basso) che è situata a 4 metri d’altezza e misura cm. 55x110, prima di essere definitivamente murata durante gli ultimi restauri, era fissata soltanto da cinque rampini di ferro, ancora visibili, dal 1876, anno di nascita della biblioteca. La sistemazione a quell’altezza, le dimensioni e l’eccessivo accostamento delle lettere incise su diciassette righe, molte per uno spazio così esiguo, da un lato l’hanno preservata per circa 140 anni, dall’altro lato non hanno facilitato la traduzione del testo in latino che, per le numerose abbreviazioni, sarebbe comunque stata enigmatica anche per i più curiosi e ostinati competenti. Diverse volte ero stato attratto da quella scritta. Prima di sfuggita, considerandola solo una comune lastra di marmo bianco, poi come un piccolo particolare delle tante foto del chiostro, poi per lo studio della storia del Collegio, ma per tutti i motivi sopra elencati avevo sempre rinunciato a occuparmene. Sino a quando la tecnologia, con l’acquisto di una nuova e più potente macchina fotografica, la disponibilità di più tempo libero perché da qualche mese in pensione, la curiosità e la passione per la storia del mio paese, sono venute a contatto con due persone veramente speciali. A questi due amici, uno conosciuto per caso mentre approfondiva le notizie sugli Starrabba, fondatori del suo paese, Pachino, l’altra, cugina del primo e consultata dal medesimo, appena ho chiesto il loro aiuto per la traduzione, per me impossibile, si sono generosamente prodigati a tal punto da venirne a capo dopo averle dedicato non poco del loro tempo. Ovviamente, per facilitare il loro arduo compito, ho dovuto inviare loro, a più riprese, diverse foto sempre più particolareggiate, insieme alla storia dei monasteri piazzesi, in particolar modo francescani, dai quali sono arrivati la maggior parte dei volumi raccolti nella biblioteca, per chiarire il contesto in cui s’inseriva la Bolla Pontificia. Ebbene, dopo qualche settimana finalmente è arrivata la sotto riportata traduzione:
<<COMPENDIO DELLA BOLLA
IL PONTEFICE PAPA PAOLO V AI FRATI MINORI RIFORMATI
Dal momento che, così come espose a Noi, da recente, il diletto figlio Bernardino de Randazzo, riformatore dell’Ordine dei Frati Minori Osservanti, del Regno di Sicilia, le biblioteche di Piazza, nei conventi di San Pietro e di Santa Maria di Gesù, dei frati del medesimo Ordine, fornite di varii libri ad uso e prestito degli stessi frati, vengono saccheggiate, ben disposti alle suppliche, presentate a Noi umilmente, in nome del citato Bernardino, di provvedere alla conservazione dei medesimi libri, affinché in seguito, coloro i quali, servendosi di qualsivoglia autorità, sotto qualsivoglia pretesto o ricercato motivo, e per qualsiasi causa, ragione o occasione, osino o presumano di sottrarre, dalle menzionate biblioteche, libri, quinterni, fogli, sia stampati sia manoscritti, donati e assegnati, fino ad oggi, alle suddette biblioteche, sia quelli che in futuro probabilmente si dovranno donare e assegnare oppure coloro i quali (osino o presumano) di prestarli ad altre persone, anche se abbiano intenzione di restituire in un secondo momento i medesimi libri oppure (osino o presumano) di consentire che vengano sottratti e vengano prestati, in virtù della (Nostra) autorità apostolica, secondo il tenore delle norme vigenti, Noi proibiamo e vietiamo (ciò), sotto pena di scomunica e di privazione della voce attiva e passiva. Date a Roma presso Santa Maria Maggiore, sigillate con l’anello del pescatore il giorno 20 novembre 1618 nel XIV anno del Nostro pontificato. Sigillo del Cardinale di Santa Susanna>>

Dopo le lamentele presentate a Roma dal frate francescano osservante-riformato Bernardino de Randazzo(7), il pontefice Papa Paolo V, nato Camillo Borghese (1552–1621, Papa dal 1605), decise di emanare la suddetta Bolla, da affiggere probabilmente presso la biblioteca del convento di S. Pietro(8) dei Frati Minori Riformati(9), essendo questo più prossimo al paese e quindi molto più frequentato dell’altro, per regolare, avvisare e ammonire, una volta per tutte, coloro i quali avessero avuto relazioni, per qualsiasi motivo, con i libri presenti nelle biblioteche dei due conventi(10). La Santa Sede, consapevole dell’assoluto valore di quel patrimonio manoscritto e librario, venuta a conoscenza dei pericoli di “saccheggio” che potevano abbattersi su quei gioielli della cultura, vietava a chiunque la sottrazione e il prestito di tutti i volumi, anche di quelli che sarebbero stati acquisiti in futuro. L’ammonizione valeva anche per chi stava ai livelli più alti nella scala dell’autorità ecclesiastica (provinciali, abati, priori) che non avrebbe controllato, per negligenza, gli eventuali abusi. Per indurre ad un più responsabile utilizzo dei libri il Pontefice, attraverso il suo Cardinale bibliotecario, intimava la più grave delle pene che possa essere comminata a un battezzato: la scomunica, che lo escludeva dalla “comunione dei fedeli” privandolo di tutti i diritti e i benefici derivanti dall’appartenenza alla Chiesa, in particolare quello di amministrare e ricevere i sacramenti. E come se questo non bastasse, il trasgressore sarebbe stato privato della voce attiva e passiva, perdendo così il diritto di essere elettore o eleggibile nelle assemblee (capitoli) di religiosi di cui faceva parte(11). La Bolla si chiudeva con le disposizioni di consegna, subito dopo era indicato il luogo di emissione, la Basilica di Santa Maria Maggiore, una delle quattro basiliche papali di Roma. Seguiva specificando il tipo di sigillo papale applicato: l’anello del pescatore, cioè l’anello fabbricato in oro esclusivamente per quel pontefice, del quale riportava il nome inciso intorno a un bassorilievo di San Pietro che pesca da una barca, perché il suo mestiere era il “pescatore”. Poi la data (20 Nov. 1618), l’anno del pontificato (XIV) e per finire un altro sigillo, quello di un cardinale. Ma questi non veniva indicato col vero nome, bensì col titolo cardinalizio ricevuto al momento della nomina, Cardinale di Santa Susanna. Quest’ultima é una delle chiese più antiche di Roma ed è diventata, dal 112 d.C. con Papa Evaristo, un titolo concesso a un cardinale, ovvero il suo nome e le sue proprietà vengono legati a un cardinale al momento della sua creazione, sino alla sua morte. Alla data del documento pontificio in questione, il Cardinale di Santa Susanna(12) era il viterbese, dal 1615 custode dell’Archivio di Castel Sant’Angelo, Scipione Cobelluzzi (1564-1626) che, nel febbraio 1618, era stato nominato da Papa Paolo V, Cardinale Bibliotecario.
Questa indagine accurata su un “pezzo di marmo bianco” scolpito quattro secoli fa, trascurato da tante generazioni di Piazzesi e collocato da un secolo e mezzo in uno degli edifici più importanti della città, ci deve far riflettere su quanto siamo consapevoli di quello che ci hanno lasciato nei secoli i nostri antenati e di quanti di questi pezzi di marmo, distribuiti per il paese, conosciamo i motivi per i quali sono stati incisi e che hanno visto come incisori i nostri trisavoli. Checché se ne dica, dobbiamo renderci conto che noi siamo il risultato di quello che erano i nostri progenitori, e che i nostri discendenti saranno il risultato di quello che siamo noi. Per questo non dobbiamo trascurare la nostra storia, perché senza memoria non avremo un futuro. Prof. Gaetano MASUZZO, marzo 2012

Si ringraziano la prof.ssa Carmela La Bruna di Catania e il prof. Antonello Capodicasa di Portopalo di Capo Passero, che mi hanno aiutato in maniera determinante nella traduzione dell’epigrafe.
Note: (1) Dopo quelli di Città Militare del 1148, Deliziosa del 1234 e Civitas Opulentissima del 1517.
(2) Corte Giuratoria o Amministratori Comunali.
(3) In “I luoghi della Memoria Scritta, Le Biblioteche Italiane fra Tutela e Fruizione”, internetculturale.it
(4) Fino a non molti anni fa era ancora possibile leggere sopra la porta d'ingresso della biblioteca dell'abbazia di Casamari (in territorio del comune di Veroli, prov. Frosinone) questa iscrizione: “Avvertenza: per tutti quelli che estraggono o trafugano libri spettanti a questo Ven. Monastero senza licenza dei superiori, v'è la scomunica da incorrersi ipso facto”.
(5) Dal tardo XVIII secolo il sigillo di piombo fu sostituito da un timbro di inchiostro rosso dei Santi Pietro e Paolo con il nome del Papa regnante circondante l’immagine.
(6) Alceste, avvocato, patriota e grande cultore della storia di Piazza, 1830-1907 (L. Villari, Storia (breve) di Piazza Armerina, 1995, p. 83) o 1827-1908 (quadro esposto in Municipio). Remigio, notaio, sindaco della città e poeta in lingua dialettale, 1829-1916.
(7) A proposito del “diletto figlio Bernardino de Randazzo, riformatore dell’Ordine dei Frati Minori Osservanti, del Regno di Sicilia,” in tutti i libri in mio possesso è riportato, in un atto amministrativo del 1655, solamente un fra Bernardino da Piazza, ma dei Frati Minori Conventuali, non degli Osservanti (Villari, Storia Ec., 1988/1989, p. 230).
(8) In Villari, 1988/1989, p. 253.
(9) I Frati Minori Riformati erano sempre Frati Francescani della regola dell’Osservanza ma che, con la Bolla Papale del 1532, avevano ottenuto il diritto di ritirarsi in conventi per osservare la “Regola” in maniera ancora più rigorosa.
(10) Il convento di S. Maria di Gesù fu fondato nel 1418 dal beato frate francescano osservante Matteo De Gallo di Agrigento, poi vescovo di Agrigento, e ben presto divenne Seminario di Santità, nel 1622 anche Seminario di Dottrina degli Osservanti Riformati. Quello di S. Pietro fu fondato nel 1502 dal frate francescano laico (ovvero del Terzo Ordine Secolare) Ludovico da Caltagirone.
(11) Da qui l’espressione dell’uso corrente avere (o non avere) voce in capitolo, avere autorità, facoltà di intervenire in decisioni, di fare sentire il proprio parere. Nel mondo ecclesiastico: durante “i capitoli” o le riunioni dei monaci o dei frati della congregazione religiosa.
(12) Fu nominato Cardinale il 19 Settembre 1616, mentre il titolo di Santa Susanna gli fu dato un mese dopo, il 17 Ottobre 1616.

Bibliografia
- Archivio Segreto Vaticano:
http://www.archiviosegretovaticano.va/scipione-cobelluzzi-1618-1626.
- Biblioteche Ecclesiastiche in “I luoghi delle Memoria Scritta, Le Biblioteche Italiane fra Tutela e Fruizione”: http://www.parodos.it/news/biblioteche.htm.
- Di Rosa Placa A. - Muscarà M., La chiesa di San Pietro Pantheon di Piazza Armerina, Ed. Lussografica, Caltanissetta, 1999.
- L’Enciclopedia Libera: http://it.wikipedia.org.
- Villari L., Storia di Piazza Armerina, Ed. Penne & Papiri, Latina, 1995.
- Villari L., Storia della Città di Piazza Armerina, Ed. La Tribuna , Piacenza, 1981.
- Villari L., Storia Ecclesiastica della Città di Piazza Armerina, Società Messinese di Storia Patria, Messina, 1988/1989.

Foto
Masuzzo Gaetano

cronarmerina.it

 

 

 


 

1598 Suor Arcangela Tirdera

Affresco Madonna col Bambino in trono, sec. XV

Anonimo, Serva di Dio Suor Arcangela Tirdera, affresco, sec. XVII

Particolare dell'affresco Serva di Dio Suor Arcangela Tirdera, sec. XVII, Pinacoteca Comunale, Piazza Armerina

Suor Arcangela Tirdera Serva di Dio

Il 20 dicembre 2011, con l'apertura della Pinacoteca Comunale nell’ex Chiesa del Monastero delle Benedettine della SS. Trinità, in via Monte 4, tra i tanti affreschi, i tanti dipinti e le 4 sculture, ho avuto la possibilità di ammirare non solo opere d’arte di autori piazzesi conosciute, ma anche alcune di quelle di cui avevo solo sentito parlare o letto. Soprattutto mi hanno colpito gli affreschi staccati dalla chiesa e dal convento dei francescani di Santa Maria di Gesù, i cui resti si trovano a 2 km ca. a ovest di Piazza. Uno dei grandi affreschi e la sua sinòpia provengono dalla chiesa e sono quelli della Madonna col Bambino in trono (foto in alto), attribuiti al cosiddetto Maestro del Polittico di San Martino ed eseguiti qualche decennio dopo la fondazione del Convento avvenuta nel 1418. Nel vestibolo della Pinacoteca (prima sala appena si entra) si può ammirare persino la cornice che li conteneva quando si trovavano su uno degli altari. Sempre dal complesso di Santa Maria di Gesù, ma questa volta solo dal convento, provengono gli altri due affreschi, che raffigurano ritratti di suore e frati francescani, posti nel corridoio di comunicazione tra la sala espositiva gialla e quella azzurra.
Il primo che s’incontra è l’affresco che si riferisce genericamente a Suore e frati di ignoto pittore siciliano secc. XVII e XVIII. Probabilmente si tratta di alcuni dei lavori di abbellimento e decorazione effettuati da Giovanni Gregorio Trigona all'inizio del Seicento nella Chiesa e, nel 1627, nel Convento. Qualche anno dopo furono aggregati altri fabbricati grazie alle elargizioni del sacerdote frate francescano Andrea Trigona della Floresta¹ che, morto nel 1629 (per alcuni nel 1627), fu posto nel sarcofago in marmo a sx dell’ingresso alla chiesa. La scarna descrizione sulla targhetta posta accanto a questo affresco, non ci fa capire totalmente il giusto valore che, invece, rappresenta sia dal punto di vista ecclesiastico che da quello evocativo di momenti della storia della città di Piazza.
Infatti, il primo disegno a sinistra (nella foto in mezzo) raffigura una suora che regge tra le braccia un Bambino Gesù e in basso si legge appena: «RAPHICA SOROR ARCHANGELA TARDER... PLATIAE QUAE PUERUM IESUM... RECIPERE... BOMINIS... TATIO... ADD... TA EIU... LANGUENTE... SEXA... APTA... AN... OS. (numeri indecifrabili)... SEPULTUM EST IN ECCLESIA SANCTI... T...». Si tratta senza alcun dubbio della piazzese Terziaria Francescana Suor Arcangela Tirdera² o Tardera³, ritenuta una dei sei beati piazzesi riconosciuti e dichiarati tali dagli Ordini religiosi di appartenenza ma senza un regolare processo canonico4, pertanto ritenuta venerabile al primo stadio della canonizzazione definitiva, ovvero “Serva di Dio”, morta l’8 febbraio 15985 e, stando a quello che dice il Mazzara nel suo Leggendario Francescano e a quello che si scorge a malapena nell’affresco «all’età di sessant’anni», perciò nata nel 1538 e non nel 1548 come dice il Villari6. Dopo un fratello, Arcangela era la maggiore di tre figlie di Pietro Tardera e Vincenza Altini (o Martini, secondo altri), e faceva parte di una delle famiglie più benestanti di Piazza. Famiglia molto ricca e allo stesso tempo molto religiosa tanto che, sia la madre, alla morte del marito, che tutte le sue tre figlie, presero l’abito di Terziarie dell’Ordine Regolare Francescano.
Arcangela appena prese l’abito di Terziaria all’età di 17 anni7 iniziò a mostrare segni di santità intraprendendo una rigorosa vita di penitenza con continui digiuni e cilici. A 24 anni iniziò a soffrire forti dolori al fianco, alle articolazioni e continui svenimenti. Conseguentemente per 14 anni poté camminare solo poco per casa, mentre per i successivi ventidue anni fu costretta a stare sempre a letto tra le incessanti sofferenze.
Per più di 5 anni ricevette ininterrottamente le cure del fratello medico, ma senza alcun giovamento, tanto da pregarlo di desistere perché era la volontà di Dio. Durante i 36 anni di dolori atroci, non diede segno alcuno di impazienza e di turbamento, né verso i famigliari, né verso la servitù, né verso le sparute persone che andavano a farle visita per motivi diversi, non ultimi quelli per chiedere delle grazie.
Negli ultimi 4 anni della sua vita, alle sofferenze già accennate, si aggiunse quella della completa cecità. Il suo stare a letto consisteva, sia di giorno che di notte, nel rimanere seduta tra due guanciali di tela grossa che le servivano anche per dormire, quando vi si appoggiava portandoseli al petto. Per coprirsi non usava lenzuola ma solo una coperta, vestiva di ruvida lana sul letto basso e piccolo, con un materasso quasi inesistente. Intorno al letto teneva il “padiglione”, ovvero una tenda scorrevole, che quando la tirava le serviva da cella e oratorio. Mangiava pochissimo solo una volta, la sera, un po’ di pane, grosso e nero, con erbe cotte. Oltre a usare il cilicio, si batteva sovente il petto con un sasso che teneva sul letto, stringendo e baciando a una a una le piaghe del suo piccolo crocifisso di rame che teneva sempre con sé. Durante una notte di Natale, mentre Arcangela era in contemplazione struggente per «il nascimento dell’Incarnato Verbo, il suo amore verso l’Uomo, il nascere d’una Vergine in tanta povertà, ed in luogo si vile, struggendole per questo il cuore, il Signore per confortarla le apparve in forma di Bambino allora nato, lasciando da quella abbracciarsi, conforme esseguì con grandissima umiltà, e divozione baciandoli i santissimi Piedi con un profluvio di lagrime, restando colma di quella gioja, che ogn’anima divota può considerare meglio, che con parole spiegare. Le restò tanto al vivo impressa nell’immaginativa quella apparizione, che ogni notte del Santo Natale per rimembranza s’alienava da sensi, rapita in estasi, ed ogn’anno in detta solennità faceva acconciar’un Bambino di rilievo in quella forma, che nacque il Redentore nel Presepio, acciò non sol’ella, ma tutti di sua Casa contemplassero il mistero». Ecco svelato il motivo della rappresentazione nell’affresco di cui sopra: Suor Arcangela Tirdera con in braccio una statua del Bambino Gesù appena nato (foto in basso). Tra i tanti doni ricevuti dal Signore ci fu anche quello di «conoscere le cose future, lontane e segrete» e, inoltre, dono ancora più raro e prezioso, fu quello delle stigmate. Queste Piaghe del Signore furono viste, mentre era in vita la Serva di Dio, solo da un’amica, Vincenza Venia, dalla madre e dalle sue due sorelle, Laura e Restituta. «Finalmente dopo morte le trovarono nelle piante, nelle mani, e sopra i piedi certi segni rotondi come la testa d’un chiodo, ma la pelle di quella rotondezza come d’una piaga sanata di fresco, e nuovamente nata, e differente dall’altra pelle, ed in mezzo vi era un segno nero, che toccato pareva come incallito; nel costato destro vi era una piaga più grande, e lunga, ma alquanto circolare, come d’una ferita». Alla sua morte «concorse innumerabile Popolo a vederla, e riverirla, onde fu necessario metter’alla porta dalla Casa le guardie, che facessero entrar tutti per ordine, le baciarono le mani, i piedi, tagliarono le vesti, presero altre cose da lei usate serbandole come Reliquie [...]. Il Vicario della Città non volle si sepelisse in quel dì, ma si trattenesse due altri giorni, dopo i quali fù atterata onorevolmente nella Chiesa del Convento nostro di San Pietro di Piazza [...]. Prima che questa umilissima Vergine morisse aveva imposto alle Sorelle, che facessero sepellir’il suo corpo nell’entrata della Chiesa, acciò tutti lo calpestassero, ma le Sorelle, e Parenti la fecero sepellire nella loro Cappella, qual’avevano nella Chiesa del nostro Convento8. Perloche una notte apparve ad una delle dette Sorelle, e la riprese di non aver’eseguita la sua volontà nel seppellirla. Riferì questa l’apparizione al Guardiano consultandosi seco, egli nondimeno, e tutti i suoi Frati furono di parere non mutarla di luogo per allora. Bensì nell’anno 1663 la levarono di là, e la posero in un muro di quella Cappella»9.
Ma da un’attenta ricognizione nella cappella Tirdera, purtroppo, non si riesce ad individuare il posto esatto della sepoltura e anche se dovesse rimanere sconosciuta nei secoli a venire, a noi concittadini di Arcangela, fedeli praticanti o semplici visitatori di questa chiesa, adesso che ne abbiamo conosciuto la vita, la bontà, la santità «concedendo moltissime grazie per sua intercessione alle divote persone tanto in vita, quanto dopo la morte» e la venerazione che le avevano tributato i piazzesi di allora, non ci resta che, ormai consapevolmente, rispettare e ammirare di più questo tempio che dal 1614, quindi appena 16 anni dopo la sepoltura della nostra Serva di Dio, è il Pantheon degli illustri piazzesi10.
Solo in questo modo possiamo renderci finalmente conto dei tesori che abbiamo intorno, che i nostri antenati ci hanno lasciato in eredità e che la loro memoria ci obbliga a goderne, tutelandoli a ogni costo per poi continuarli a trasmettere alle successive generazioni. Gaetano Masuzzo, dicembre 2012

1 Cf. Carolina Miceli (a cura di), Francescanesimo e cultura nelle provincie di Caltanissetta ed Enna, Atti del Convegno di studi, Caltanissetta-Enna 27-29 ottobre 2005, Biblioteca Francescana Officina di Studi Medievali, Palermo 2008, p. 173. Il ramo della famiglia Trigona a cui apparteneva Trigona Andrea era quello dei baroni di San Cono Superiore che solo nel 1773 divenne anche della Floresta.
2 Lo storico piazzese G. P. Chirandà è «il più attendibile quanto al cognome Tirdera e alla data di morte di Arcangela (8 febbraio 1598), che altri» (Litterio Villari, Storia ecclesiastica della città di Piazza Armerina, Soc. Messinese Storia Patria, Messina 1988, p. 258 e nota 148). Inoltre, nel 1620 i Giurati di Piazza cedono all’abate benedettino del monastero di Fundrò, Angelo da Fondi, la chiesa di S. Rocco e l’attigua vasta abitazione un tempo di proprietà della famiglia di Virginia Tirdera o Tardera o Tridera e nel 1624 un tale Giovanni Battista Tirdera appare, insieme ad altri due piazzesi, come testimone nel testamento di don Asdrubale Trigona (cf. L. Villari, Storia ecclesiastica, cit., pp. 297, 299, 422).
3 Cf. Benedetto Mazzara, OFMRif., Leggendario francescano, tomi 12, tomo II Vite di Febrajo 8, Per Domenico Lovisa, Venezia 1721, pp. 138-143; Pietr'Antonio di Venezia, OFMRif., Vite de Santi, Beati e Venerabili Servi di Dio estratte dal novissimo Leggendario Francescano già ridotto in dodici Tomi, Per Domenico Lovisa, Venezia 1725, pp. 128-134; Anna Maria Turi, Stigmate e stigmatizzati, Ed. Mediterranee, 1990, p. 174 n. 68 dell’elenco.
4 Gli altri sono Simone d’Aymone (+1295), francescano conventuale sepolto nella chiesa di S. Francesco; Giacomo Bruno (1475-1550), padre domenicano; Giacomo Calabrese (1410-1480), fratello coadiutore domenicano, in un’urna di vetro presso la chiesa di S. Ignazio; Vincenzo Coniglio (1470-1551), padre domenicano; Serafina Trigona (1597-1619), benedettina dell’abbazia di S. Giovanni Evangelista (cf. Litterio Villari, Il Vessillo del Conte Ruggero il Normanno e i Santi della Chiesa Piazzese, Tip. Don Guanella, Roma 1998, p. 97)
5 Anno riportato dal Villari insieme all’anno di nascita 1548 in Storia ecclesiastica, cit., p. 258 e in Il Vessillo del Conte, cit., p. 97, mentre in Storia della Città di Piazza Armerina, La Tribuna, Piacenza 1981, p. 390 scrive «nata nel 1548 e morta nel 1608». Altri 5 Dizionari pongono la morte al 1599 o al 1608 (cf. L. Villari, Storia ecclesiastica, cit, p. 258 nota 148). Inoltre il Mazzara nell'opera Leggendario, cit., p. 142, scrive «Trentasei anni della sua vita passò questa Serva di Dio in continue infermità, a quali aggionse non poche mortificazioni, e penitenze, onde arricchita di meriti nell’anno di Cristo 1598 le dette infermità se le aggravarono, e conoscendo esser prossimo il suo passaggio dalla presente alla futura vita, si riempì d’un incredibile giubilo nell’anima. Otto giorni avanti la sua morte andate a visitarla Suor Grazia, e Suor Lisabetta di Cagno Sorelle, Terziarie nostré sudette, le disse, Sorelle, io mi sento nell’anima una grandissima alegrezza, dal che subito quelle giudicarono, che intendesse della morte. Erano allora i giorni di Carnevale, e volendo i suoi di casa fare qualche ricreazione, se n’astenevano per la sua infermità, dubitando, che non morisse. Conosciuto ciò ella, chiamo la Madre , e le sorelle, e disse loro, fate pur ricreazione, perche io non morirò questo Carnevale, come avvenne. Entrata la Quaresima s’apparrecchiò per ricevere i Santi Sagramenti dell’Eucarestia, ed estrema Unzione, e ricevutili nel giorno antecedente alla morte, venuto il giorno seguente voleva di nuovo comunicarsi, ma portatole di nuovo la mattina il Sagramento non potè riceverlo, solo con grandissima divozione, e fervore l’adorò, e poi nel giorno diede l’anima al Creatore, essendo gl’otto di Febrajo nella prima settimana di Quaresima dell’anno 1599 e dell’età sua sessanta». E' evidente l’errore quando ripete il primo anno 1598 in 1599, trattandosi sempre della stessa quaresima e successiva al medesimo carnevale. Per gli altri Dizionari dove si legge 1608, l’errore è stato quello di confondere la nostra Arcangela Tirdera con un’altra suora Terziaria nata nel 1548 e morta nel 1608, Suor Arcangela (d’Assisi), che «ebbe le cinque piaghe di Cristo, che furono oggetto di esami e processi verbali conservati nell’opera del frate minore Randèze» (A.M.Turi, Stigmate, cit., p. 174 n. 71 dell’elenco). Nella stessa opera della Turi la nostra Arcangela si trova nella stessa pagina ma al n. 68 «Arcangela Tardera (1539-1599) Terziaria francescana, originaria di Piazza (Sicilia), fu stigmatizzata ma finché fu in vita mostrò le piaghe solo alla madre, a un’amica e a due suore. Alla sua morte si vide che aveva ai piedi e alle mani delle stigmate rotonde come la testa di un chiodo e sul lato del petto una piaga grande, obliqua, di forma ovale. La pelle delle stigmate delle estremità era segnalata da una cicatrice recente con un punto nero calloso al centro». Inoltre veniamo a sapere che «Parve anco non piccolo miracolo, che il suo Corpo dopo morte non diede niuno mal’odore non solo ne’ due giorni tenuto insepolto, ma dopo sepellito aperta la sepoltura quattro volte frà dodici giorni per i divoti, che vollero vederla, particolarmente i segni delle Stimmate, sempre diede una fragranza soavissima» (B. Mazzara, Leggendario, cit., p. 143). Per la correzione di alcuni anni effettuata successivamente vedi Date corrette per suor Arcangela Tirdera del 29 gennaio 2018. 
6 Cf. L. Villari, Storia ecclesiastica, cit., p. 258; Id., Storia della città, cit., p. 295.
7 È scritto erroneamente «7 anni» (B. Mazzara, OFMRif., Leggendario, cit., p. 138).
8 Si tratta della IV cappella a dx, a fianco dell’altare maggiore, della famiglia Tirdera, poi dei Miccichè (di cui c’è lo stemma sull’arco dell’altare) e poi dei Cagno (cf. L. Villari, Storia ecclesiastica, cit., 1988, p. 250, n. 120bis).
9 B. Mazzara, OFMRif., Leggendario, cit., p. 142.
10 Solo per fare qualche esempio di personalità seppellite nei sarcofagi delle 7 cappelle: il medico e matematico Giovanni Francesco de Assaro, suocero del barone Marco Trigona; Giovanni Tommaso Sanfilippo duca delle Grotte e il figlio Desiderio duca e cavaliere di Malta; alcuni appartenenti allle famiglie Trigona, Polizzi, Boccadifuoco, Tirdera, Miccichè e Cagno.

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Mirabella Imbaccari. Storia di un feudo del XVII secolo.

Castello di Mirabella Imbaccari (CT)

Palazzo Biscari, Mirabella Imbaccari (CT)

 STORIA DI UN FEUDO DEL XVII secolo

Negli anni della “colonizzazione interna” siciliana tra il XVI e il XVIII secolo, precisamente nel 1610, in un feudo a pochi Km a Sud-Est da Piazza Armerina viene fondata Mirabella (dal 1862 Mirabella Imbaccari). Il feudo, che nel periodo arabo faceva parte del vastissimo territorio del casale di Menzil Khâlil o Malgâ Halîl, era suddiviso in due: Imbaccari Superiore e Imbaccari Inferiore (in alcuni testi dell’XI sec. il nome è anche Limbaccari, Lambaccara o Limbaccara che, per lo studioso Litterio Villari, deriverebbe dalla città di Mactorium poi Maccorium, da cui Maccari). Dal 1160 il feudo passa sotto la giurisdizione della città di Piazza allora chiamata Placea o Placia. Infatti, il casale feudale nei secoli XII, XIII e XIV appartiene alle famiglie di nobili abitanti a Piazza (Goffredo di Mazzarino, Ugo Lancia, de Cardona, Villardita, e nei primi anni del 1400 alla famiglia abitante a Caltagirone, de Andolina. Nel 1425 Giovanni de Andolina (o Landolina) di Caltagirone è costretto a vendere Imbaccari Sottano a Gualtiero Paternò (o Paternione), Giudice della Gran Corte. Il feudo Imbaccari Sottano comprendeva il feudo Imbaccari Sottano propriamente detto, il màrcato Baldo (Inferiore e Superiore) e quello di Piana di Minnelli. Nel 1585 il barone Giuseppe Maria Paternò vende Imbaccari Sottano a Pietro Gaffori, barone del Toscano, tenendo per sé Baldo e Piana di Minnelli. Dieci anni più tardi (1595) il barone si sposa, per la seconda volta, con Eleonora Mirabella baronessa di Ricalcaccia e Spinagallo e quindici anni dopo (1610) chiede ed ottiene da re Filippo III d’Asburgo II di Spagna e II di Sicilia, tramite il vicerè marchese Vigliena, quello che fece costruire la piazza ottagonale “I Quattro Canti” di Palermo, la “licentia populandi” e il “mero e misto imperio” per il suo feudo Baldo e Piana di Minnelli, dandogli il nome di Mirabella in onore della famiglia della moglie Eleonora¹. Nel 1630 il figlio di Giuseppe Maria Paternò, Giacinto, riacquista il feudo di Imbaccari Sottano dai discendenti di Pietro Gaffori e ottiene la licenza, dal vicerè Francesco Fernando de La Cueva , di trasferirvi il paese che ha già fondato nel 1610 nel feudo di Baldo che, purtroppo, si è rivelato insalubre persistendo la malaria. A questo trasferimento si oppone la città di Piazza che si vede lesa nei suoi diritti perché privata da una parte delle entrate fiscali. Dopo sei anni di contrasti (1636), pagando 200 onze ai Giurati di Platia, arriva l’accordo risolutivo per ottenere la totale giurisdizione. Infatti, il vicerè Luigi Moncada principe di Paternò, concede l’autorizzazione definitiva al trasferimento. Nel 1693 il feudo di Imbaccari Sottano insieme alla Terra di Mirabella, per i debiti contratti dalla famiglia Paternò, se lo aggiudica Luigi I Trigona (1650-1714) ma nel 1730 lo recupera, pagando i debiti, Geronimo Paternò che, quattro anni dopo, lo vende a Vincenzo Paternò Castello principe di Biscari che nel 1737 si investe del titolo di Imbaccari Sottano, Baldo e Terra di Mirabella. Alla morte di Vincenzo Paternò Castello (1749) il feudo passa al primogenito Ignazio Paternò Castello Scammacca detto il Grande, perché illustre mecenate, archeologo, numismatico e letterato nonché fondatore del museo “Biscari “ di Catania. L’ultimo della famiglia Paternò Castello, che erediterà i beni di Mirabella nel 1897, è Ignazio che frazionerà il feudo in piccoli appezzamenti e donerà sia il palazzo baronale (1928, foto in basso) che il terreno in contrada Orto Canale per la costruzione delle Scuole Elementari (1930), prima di entrare tra i Chierici Regolari di S. Paolo detti PP. Barnabiti a Roma.

¹ Il padre si chiamava Biagio Mirabella e Landolina signore di Carcaci e, per aver sposato Isabella Iurato e Mancini dei baroni di Monte Suzza, barone di Ricalcaccia, Spinagallo, Buccalesi e Cadedi.

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