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Gaetano Masuzzo

Gaetano Masuzzo

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'Ngiulìnu u bersaglièr-1

Piazza Armerina primi anni del Novecento

La storia vera di un giovane Piazzese di cento anni fa - 1

<<Per rendersi conto del tipo di vita che conducevano 'Ngiulìnu (Angelo) e la sua famiglia, bisogna chiudere gli occhi e cercare di visualizzare l’ambiente in cui veniva a trovarsi una cittadina del centro della Sicilia nel lontano 1893. Inutile dire che si era senza radio, TV, telefoni, e tutto quello di cui ora noi, immersi nella civiltà moderna, non sappiamo più fare a meno. Allora il concetto di “Italia” era conosciuto solo ad una ristretta cerchia di intellettuali. Tutto il resto della popolazone viveva alla giornata e non si interessava neanche di quello che accadeva nel paese vicino. Figuriamoci poi come ci si sentiva lontani da realtà come Palermo, Napoli o addirittura Roma. Vivendo poi in Sicilia, vi era inoltre la grossa piaga dell’analfabetismo che rendeva gli uomini completamente ciechi, anche se avevano una vista da aquila. Essere analfabeti significava dover dipendere da altri, più istruiti, anche per le piccole cose, come andare all’ufficio postale per ritirare un documento, oppure aspettare altra gente che leggesse ad alta voce i manifesti che venivano affissi sui muri, unico mezzo di comunicazione tra le Autorità e la popolazione. 'Ngiulìnu, figlio di contadini, non venne mandato a scuola. D’altra parte, allora, non vi era nessun obbligo e quindi ogni famiglia faceva quello che voleva dato che tutti avevano l’esigenza di avere braccia per lavorare in campagna. Terre che non erano mai di proprietà, ma che venivano affittate dai grossi proprietari terrieri. La sua gioventù fu quindi cadenzata dalla raccolta delle olive, delle mandorle, dalla mietitura del grano, e da tutte quelle attività che si svolgevano nei campi. Nel 1914 'Ngiulìnu era già militare. Era stato chiamato alla leva assieme ad altri suoi coetanei ed era di servizio in una caserma di Catania come bersagliere. Già essere a Catania per lui rappresentava uno stravolgimento totale del suo modo di vivere. Niente più vita nei campi, ma corse nei cortili della caserma, esercitazioni e poi passeggiate per le vie della città. Ogni tanto in caserma arrivavano notizie che in Europa alcune nazioni erano già in guerra e che l’Italia, come al solito, stava ancora pensando cosa fare. Ma ai bersaglieri non veniva comunicato mai niente. I sottufficiali e gli ufficiali di allora erano come degli dei che stavano in alto nei cieli a migliaia di chilometri di distanza dai poveri soldati. Solo qualche caporale o sergente rivolgeva loro la parola, ma dal maresciallo in poi nessuno si permetteva di perdere tempo con degli esseri inferiori. Non parliamo poi degli ufficiali superiori. Quelli erano veramente irraggiungibili ed appartenenti ad altri mondi. Quando il 24 maggio 1915 l’Italia entrò in guerra, 'Ngiulìnu e tutto il suo esercito partirono per il fronte. Le zone di guerra erano nell’Italia del Nord e quindi il nemico bisognava andare a scovarlo proprio lì. Ora, spostare un esercito da Catania fino all’odierno Trentino, Friuli o Veneto, non era cosa da poco. Le ferrovie erano in condizioni disastrose (cosa che permane ancora nel nostro Sud) e quindi la prima parte del viaggio avvenne in nave da Catania fino a Napoli. E qui vi furono le… prime perdite. Gente che non aveva mai visto il mare, venne messa su delle carrette e stipata dentro delle stive puzzolenti. Appena vi fu un po’ di mare grosso, erano tutti fuori a vomitare compresi, questa volta, e con grande gioia di tutti, anche i sottufficiali e gli ufficiali. Loro, però, vomitavano dai ponti superiori, perché quando si è… superiori, anche nello star male bisogna rispettare le regole. Il viaggio durò alcuni giorni e quando misero piede a terra, tutti avrebbero avuto bisogno di almeno una settimana per rimettersi in sesto, ed invece furono caricati su delle tradotte e portati a Nord. Il viaggio durò molti giorni. Ogni tanto le tradotte si fermavano in zone sconosciute, in aperta campagna e rimanevano bloccate per diverse ore. Nessuno dava loro spiegazioni e nessuno osava chiedere. Quando arrivarono a destinazione, il paesaggio era completamente diverso da quello che avevano lasciato al sud. Erano circondati da montagne e l’aria era frizzante, ma molto pulita. Dormivano in enormi cameroni con della semplice paglia per terra. Le condizioni igieniche erano disastrose ed i parassiti erano i loro compagni sia di giorno che di notte. A marce forzate vennero portati fino alla zona di operazione. Dovevano dare il cambio ad una Compagnia che era stata mandata nelle retrovia perché… completamente decimata. Questa, purtroppo, era la voce che girava, ma di ufficiale non si sapeva mai niente. Fortunatamente qualche cosa trapelava dal sergente Cirillo, un simpaticissimo napoletano che stava sempre attaccato al capitano di Compagnia Rapisarda. Il capitano era originario di Catania e, a dir la verità, si diceva che non godeva di una grossa stima tra i suoi superiori e soprattutto stava sulle scatole al Colonnello Comandante Sarca. Rapisarda, infatti, aveva il “grosso difetto” di fermarsi troppo a parlare con i subalterni ed in particolare con i bersaglieri della sua Compagnia. Spesso era stato richiamato perché in trincea era stato visto seduto per terra a fumare assieme a delle semplici reclute. Inoltre aveva sempre una parola di conforto per quelli che andavano in depressione dopo i violenti attacchi del nemico e, cosa veramente disdicevole, si prestava sempre per scrivere le lettere ai famigliari di coloro che erano completamente privi di qualsiasi istruzione. Questo rendeva il Capitano una persona ammirata da tutti, ma antipatica ai suoi pari grado. I bersaglieri, invece, erano molto fieri di avere un personaggio così alla mano come comandante e tutti si prodigavano affinché la loro Compagnia fosse sempre la più disponibile e quella in cui non vi erano mai liti, furti o falsi malati che cercavano di non essere operativi. La Compagnia di Rapisarda era, infatti, quella con il più basso grado di chiedenti visita ogni mattina e questo suscitava tra i vari ufficiali una forte gelosia ed anche commenti un po’ sarcastici sul suo modo di fare>>. (continua) Angelo MASUZZO¹

¹ Nipote più anziano di 'Ngiulìddu nato a Piazza nel 1948, da cinquant'anni vive a Rovereto in provincia di Trento.

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Chi era Maltisotto

Targa stradale nel quartiere Monte

Oggi vi spiego a chi si riferisce il cognome nel cartello di un cortile del quartiere Monte, proprio dietro la I Matrice della Città, San Martino di Tours. Proseguendo oltre, c'è la breve strada intitolata alla chiesa di Gesù e Maria, anticamente fuori la Porta di San Martino, nel dirupo verso glio orti. Nel 1866 i frati Fatebenefratelli, che sin dal 1690 avevavo gestito l'Ospedale intitolato al loro Santo fondatore, San Giovanni di Dio, vanno via e viene nominato rettore, sia del loro ospedale che di quello accanto voluto nel 1771 da Michele Chiello, il notaio Remigio Roccella. Il chierico Michele Chiello aveva fondato un nuovo ospedale, limitrofo all'altro ma con una amministrazione distinta e separata, perché da quasi mezzo secolo l'antico e unico ospedale che c'era in città registrava una cattiva amministrazione. Il Roccella una volta rettore dei due ospedali, con l'aiuto dei beni della baronessa Carmela d’Acquino vedova di Vespasiano Trigona Calafato, delle donazioni del sacerdote Pasquale Maltisotto, della signora Adelaide La Vaccara e del sacerdote Vincenzo Starrabba (1730-1803) dei principi di Giardinelli e marchese di Rudinì, risana il bilancio amministrativo del primo e aquisisce, nel frattempo, l’attiguo convento di San Francesco facendolo diventare la nuova sede dei due Ospedali cittadini, il "San Giovanni di Dio" e il "Chiello", riuniti sotto l'unico nome di "Ospedale Michele Chiello". Pertanto, sia la chiesa che l’Ospedale "San Giovanni di Dio", limitrofi all'altro, rimangono abbandonati. Sessant'anni dopo, nel 1931, i resti della chiesa crollata nel 1876 verranno abbattuti definitivamente, per consentire la costruzione di un'altra ala dell'ospedale "Chiello". La nuova ala all'inizio verrà adibita a sede temporanea della Regia Scuola Industriale Arti e Mestieri, intitolata nel 1927 al Deputato al Parlamento Calogero Cascino (1864-1932). Dopo qualche mese la Regia Scuola si trasferirà definitivamente nella nuova sede inaugurata nel 1928, lungo il viale ancora senza nome che porta al nuovo quartiere "Cannizzaro". Ecco chi si nasconde dietro quel cognome un po' particolare che ai più non dice nulla, un sacerdote grande benefattore che aiutò il nostro nosocomio poco dopo l'Unità d'Italia.

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8 Donne da ricordare

Dov'era la Porta dell'Ospedale

Dov'era l'ospedale voluto dalla nobile Giacoma Villardita nel 1420

Dov'era l'ospedale che Graziana Villardita, figlia di Giacoma, trasferì nel 1444

8 DONNE DA RICORDARE
(Monte di Prestami, 10 marzo 2018)

In questi anni in cui mi sono occupato della storia di Piazza, mi sono imbattuto in diverse donne piazzesi dalla forte personalità e carattere. In questa occasione non voglio riproporre le tante che hanno lasciato un segno in ambito ecclesiastico, come Serve di Dio, beate, suore, monache e fondatrici di istituti religiosi, bensì ricorderò alcune donne che si sono distinte nel raggiungimento di obiettivi che si pensa siano declinati esclusivamente al maschile. Inizio con due donne, madre e figlia, Giacoma e Graziana Villardita, cognome che poi si trasformerà nell’odierno Velardita. La madre, Giacoma, prendendo atto che a Piazza per i quasi 8.000 abitanti di allora, siamo nei primi anni del Quattrocento, non ci fosse un ospedale vero e proprio, se non quello gestito dai frati Ospedalieri  dell’ordine di San Giacomo d’Altopascio, inadeguato e quasi rudimentale nell’odierna via Roma, all’altezza della chiesa di Santa Barbara dove c’era una delle porte della città chiamata appunto dell’Ospedale (foto in alto), trasforma in Ospedale la sua grande abitazione dove oggi c’è la Pinacoteca Comunale di via Monte (foto in mezzo), dandogli il nome di Ospedale di San Calogero e di Santa Maria degli Angeli. 24 anni dopo la figlia, Graziana, lo trasferisce nell’edificio di fronte l’odierna chiesa di San Giuseppe (foto in basso), dove esiste la chiesa dei Santi Filippo e Giacomo adatta ai bisogni di un più attrezzato ospedale.
Facendo un salto di un secolo e mezzo, arriviamo al 1580, quando una donna tra i tanti uomini benefattori, Beatrice Cremona, lascia una consistente eredità al Monte di Pietà, affinché fosse destinata alla formazione della dote alle ragazze orfane, per agevolare i loro matrimoni o maritaggi. Infatti, questo tipo di sostanziose donazioni, che aiutavano le giovani donne della nostra città del Seicento e del Settecento a crearsi una famiglia, si protraevano per  anni e venivano chiamati Legati di Maritaggio.
Arriviamo alla fine dell’Ottocento primi Novecento, quando la baronessa Carmela D’Aquino, vedova sia del primo marito, Vespasiano Trigona Calafato dei baroni di Geraci, sia del secondo, pronipote del primo, Antonino Trigona barone di Geraci, dopo aver rinunciato all’usufrutto dei beni in favore dell’ospedale che già allora si chiamava “Chiello”, con i suoi lasciti fonda nei primi anni del Novecento un istituto di beneficenza nel suo palazzo di piazza Castello. L’istituto “Baronessa Carmela Trigona di Geraci” che comprende un asilo, la scuola elementare e un laboratorio di sartoria e ricamo, dopo qualche decennio si trasformerà in Scuola Professionale Femminile, per poi essere gestito dalle Suore Salesiane Figlie di Maria Ausiliatrice.
Concludo queste notizie su donne che hanno influito nella nostra storia culturale cittadina, parlandovi brevemente di altre quattro di un certo rilievo, ma in campo letterario e sconosciute ai più.
Una è Severina La Vaccara Trigona, figlia dell’onorevole piazzese Benedetto La Vaccara Giusti,  nata nel 1884 e morta nel 1971. La troviamo tra le personalità elencate dal prof. Sebastiano Salomone nel suo dizionario del 1911 La Sicilia intellettuale contemporanea dove di lei dice che «Scrive più  spesso in poesia e si fa ammirare per gusto, per semplicità, per eleganza di frase e di pensiero. Nei versi di lei predomina la nota gentile di altruismo e di patriottismo». Inoltre, la troviamo, assieme ad altre due piazzesi, Maria Giovanna D’Anca e Agata Libra, elencata tra le Poetesse in italiano siciliane contemporanee nel libro dello storico Santi CORRENTI, Donne di Sicilia. La storia dell'isola del sole scritta al femminile, Coppola Editore, Trapani 2002.
L’ultima delle 4 poetesse piazzesi è la professoressa Anna Maria Cerasuolo, nata a Piazza Armerina nel  1917 in via Crocifisso, dal matrimonio tra il maestro di musica e direttore della banda cittadina, originario della Calabria, Giuseppe Cerasuolo, e la maestra elementare Maria Bonifacio. La poetessa muore a Vittoria nel 2002. Laureata in Lettere, insegna nelle scuole di Piazza dove conosce il marito, Lorenzo Zaccone originario di Modica, anche lui insegnante di lettere nel nostro Liceo Classico negli anni Cinquanta. La Cerasuolo la scopro per un fatto curioso. Un giorno mi accorgo che nella sala della Mostra del libro Antico in Biblioteca, esiste un quadretto con una lettera manoscritta che non si capisce bene a chi e a che cosa si riferisca. Dopo la relativa ricerca, scopro che quella è una lettera scritta dalla poetessa alessandrina Sibilla Aleramo alla nostra Cerasuolo che, oltre a essere un’ottima insegnante, quando se ne presentava l’occasione, metteva in mostra le sue straordinarie qualità musicali come quella di saper suonare tutti gli strumenti (anche quelli a fiato) o quella di saper cantare, con una bellissima voce di soprano. Ha pubblicato varie raccolte di poesie, un romanzo, uno di novelle e uno che spiega la Divina Commedia agli alunni della scuola media. Tra le tantissime poesie c’è questa brevissima dal titolo DONNE DI SICILIA tratta dalla raccolta “Poesie” presente anche nella nostra Biblioteca Comunale. Mi sembra appropriata all’occasione e per questo la dedico a tutte le donne piazzesi, con l’augurio che diventino sempre più influenti nella nostra società, senza però avere gli stessi difetti di noi uomini.  

DONNE DI SICILIA

Languide e vibranti
nascondono
sotto ciglia di gazzella
il fuoco che le divora
e le rende
pavide e ansiose
al pensiero d'un bacio.

Ma non c'è fretta in loro.
Sanno tendere le reti dorate
ai sogni della vita
e pazienti attendere
l'ala che vi batterà contro
furtiva.
Poi non indulgono più ai giochi.
D'amore si può morire.

A. M. Cerasuolo

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Artù, l'arcobaleno a 4 zampe

Il volpino Artù in braccio alla padrona

La copertina del libro¹

Tre anni fa in una piazza di Aidone due grossi cani pit bull sfuggiti alla custodia del loro padrone, azzannano un volpino che muore per le ferite riportate. I quotidiani del 15 dicembre 2015 titolano "Aidone, volpino ucciso in piazza da due pit bull sfuggiti da cortile". Dopo qualche anno la padrona Maria Gabriella Alessi che gestisce una tabaccheria in piazza Umberto I, decide di raccontare l'amore che il suo cane aveva per lei con un libro (foto in basso). Per caso l'altro giorno sono entrato nella tabaccheria e, chiedendo alla signora quanti anni avesse il suo volpino bianco accanto, mi ha raccontato la triste storia del precedente di nome Artù. Pensando a cosa avrei provato se l'incidente fosse capitato al mio Dik, alla signora ho promesso di parlare ai miei lettori della sua storia che si trova pubblicata da qualche mese nel suo libro Un arcobaleno di nome... Artù. << L'amore per gli animali è sicuramente un sentimento così forte da poter essere paragonato a quello per i propri cari. E sicuramente l'affetto che soprattutto i cani hanno per il loro padrone è indissolubile e senza confini... Il romanzo racconta momenti di vita vissuta, anche al fine di far conoscere il preoccupante fenomeno, sempre più spesso alla ribalta delle cronache, dei cani che fuggono alla custodia dei loro proprietari e aggrediscono altri animali o, addirittura, bambini. Un fenomeno preoccupante in costante ascesa in cui si inserisce la storia di Artù, un simpatico e affettuoso volpino, diventato suo malgrado un eroe proprio per aver perso la vita nel tentativo di proteggere la sua padrona dall'aggressione di due grossi cani... Non volendo perdere quel legame meraviglioso che aveva con Artù, Maria Gabriella ha dato un significato particolare all'arcobaleno: ogni volta che questo fenomeno naturale compare nell'azzurro del cielo, lei sente che Artù le manda un segno. Quindi non manca mai di osservare e salutare con gioia l'arcobaleno convinta che da lassù il suo amato cane si manifesti iridato, per esprimerle quella vicinanza e quell'affetto che le donava senza riserve quando era in vita. Quattro anni di vita insieme passati in un attimo... Sicuramente chi ha un cane si emozionerà leggendo la storia di Artù che col suo istinto innato quel giorno di dicembre, e con un coraggio non comune in un cane di piccola stazza, non ha esistato ad andare incontro alle due "belve" per difendere la sua amata padrona, sacrificando la propria vita per proteggerla>>.  

¹ Maria Gabriella ALESSI, Un arcobaleno di nome... Artù, Antonio Crepaldi Editore, pagine 86, prezzo 21 euro.

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