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Cronarmerina - Aprile 2025

Beato frat'Innocenzo Milazzo/7

Il Convento di S. Marià di Gesù fondato nel 1430¹
 
Vita del Beato frat'Innocenzo Milazzo
 
Capitolo 7°
 (Palermo, Castrogiovanni, Giuliana e Piazza, fine 1500)
 
(dal Cap. 6°) Essendo in Palermo il Barone di Monica voleva andare con tutta la sua casa in Castro Giovanni; la Baronessa non le piacendo, andò da questo Servo di Dio pregandolo ad esortare il marito a non partire. Egli però disse al Barone, Signore, non badate alla Baronessa, partitevi presto, altrimenti vi avverrà cosa, che non vorreste: eseguì il Barone il suo conseglio, perche lo riputava uomo Santo. Pochi giorni dopo arrivò il nuovo Vicerè, e nella sua entrata cadde il Ponte, onde tutti i Cavalieri precipitarono nel mare, fra quali anch'egli si sarebbe trovato. Nell'anno 1590 predicando la quaresima in Giuliana nella predica del Giudizio universale disse agl'Uditori, che fra breve avevano da esser gastigati da Dio colla carestia, per la quale si ridurrebbero a mangiar erba come bestie; l'anno sguente fu si sterile, che non avendo pane si cibarono d'erbe, e morivano mirabilmente. Nell'istesso tempo predisse, che un'immagine del nostro Padre San Francesco nello Spedale di detta Terra aveva da fare molti miracoli. Nell'anno medesimo un giorno cominciò a diffondere dalle Stimmante un liquore come oglio, col quale seguirono moltissimi miracoli, risanando più infermi. Altre cose predisse, quali non furono notate, e delle notate molte si sono lasciate per fuggire la prolissità, conforme conviene far anco de' miracoli, che per mezzo di lui operò il Signore. In Palermo presso al Convento di Santa Maria di Giesù è un Giardino, in cui andato un giorno a spasso il Padrone detto per nome Matteo Fiorenza colla moglie, e figli, prese nelle braccia un suo puttino chiamato Antonino, ed alzandolo in aria disgraziatamente gli cadde in terra, e vi restò morto. Ciascheduno può pensare con che dolore viddero ciò il Padre, e la Madre. Andarono subito piangendo al Convento, e dimandato il Padre Frat'Innocenzo, gli raccontarono la sventura occorsali, e con prieghi lo condussero con loro al giardino, dove trovarono il figliuolino come marmo raffreddato, essendo più d'un'ora ch'era morto. Mosso a pietà il Servo di Dio di lui, e de' Genitori fè alquanto orazione, e posta la mano sopra il cadavere gli fece il segno della Croce, e subito risuscitò il figliuolino con allegrezza, e meraviglia di tutti. Visse poi, fu Sacerdote, e raccontava ad ognun il miracolo successoli. Nella Città di Piazza Don Giuseppe Trigona², essendo stato per un mese continuo oppresso da dolori interni, e da una indisposizione, che non poteva rattener il cibo, un giorno andò a cavallo al Convento di Santa Maria di Giesù, dove allora abitava il Padre Frat'Innocenzo, ed arrivato si riposò sopra il suo povero letticciuolo, nel quale s'addormentò, e svegliato si trovò sano. Nella stessa Città Marco Trigona³, essendo aggravato da un male colico per quattro giorni continui, da Medici fu giudicato dover morire la seguente notte, onde i parenti andati al Convento dal Padre Frat'Innocenzo, lo raccomadarono alle sue orazioni, ed egli a loro disse, che tornassero allegramente a casa, che l'infermo era guarito, accertandoli, che non seguirebbe il detto de' Medici; tornati coloro trovarono l'infermo sano. (continua)
 
¹ Questa foto ci mostra il Convento com'è oggi, il 90 % in rovina, medesimo destino dell'altro meraviglioso chiostro francescano di S. Pietro. Lo troviamo come se fosse stato bersaglio di cannonate, quelle dell'ignoranza, che avrebbero provocato una breccia: come c'è a Roma "La breccia di Porta Pia" così a Piazza abbiamo "La breccia dell'incuria" o "La breccia dell'ignoranza" o "La breccia di S. Maria di Gesù".
² Si tratta di Giuseppe Trigona barone di Cimia nato nel 1552 e morto nel 1613 all'età di 61 anni, i cui resti si trovano nella III cappella a sx della chiesa di S. Pietro.
³ Si tratta di Marco Trigona barone di Gatta, Alzacuda Sofiana e Ursitto (1546-1598) ricordato per aver lasciato in eredità oltre 100.000 scudi per l'ampliamento e rifacimento della Chiesa Madre, poi Cattedrale, della nostra Città.
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Soluzione oggetto misterioso n. 14

 
In questa foto, proprio al centro, si può ben vedere dov'è situato l'oggetto misterioso in via Sant'Agostino. L'oggetto non è altro che un argano (ormai arrugginito) a manovella mobile che s'innestava nel foro centrale esagonale. Ruotando la manovella si tirava una fune, anche metallica, che sosteneva un lampione a petrolio tramite una carrucola. La luce elettrica nella nostra città fu introdotta per la prima volta nel 1904 ed era prodotta da una centrale alimentata a nafta. La centrale, che faceva un rumore infernale, e i miei nonni materni ne sapevano qualcosa abitando nel retrostante cortile Minnella, aveva la sede al secondo piano dell'edificio in via Cavour (Santa Rusalìa) che sino a poco tempo fa è stata la sede della Pretura prima e della Facoltà di Scienze della Formazione poi. In quel periodo, e anche dopo, al pianterreno c'erano le botteghe del mercato ortofrutticolo e alimetare. Sino agli anni trenta questa centrale poteva assicurare l'elettricità in un raggio di 200 metri ca., tutta l'altra parte della Città ne rimaneva senza. Ecco perchè, sino a quando la centrale non fu potenziata col passaggio dal Comune alla Società Generale Elettrica dei fratelli Prestifilippo, in tutte le strade principali senza elettricità si accendevano dei lampioni a petrolio. Gli addetti passavano con una scala, ruotando l'argano facevano scendere il lampione, se era il caso aggiungevano del petrolio che portavano di scorta na lànna, accendevano il lume e riportavano il lampione in alto a illuminare quel tratto di via o d'incrocio. Questo avveniva la sera all'imbrunire, al mattino c'era l'operazione inversa, tutti i giorni dell'anno. Gaetano Masuzzo/cronarmerina 
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Beato frat'Innocenzo Milazzo/6

Parte centrale del frontespizio del Leggendario Francescano, 1722
 
Vita del Beato frat'Innocenzo Milazzo
 
Capitolo 6°
(Caltanissetta, Castrogiovanni, Palermo, Piazza, Busacchino e Catania, 2^ metà del 1500)
 
(dal Cap. 5°) Volle di più il Signore dotarlo dello Spirito profetico, conforme in molti casi si vidde, de' quali si addurranno qui alcuni pochi. Passando una volta per Caltanissetta abbattè un suo divoto detto Vincenzo Caruso, il quale allora si trovava con buona salute, e gli disse, Fratello, preparatevi, atteso fra quindici giorni, non sarete più con noi; si burlò quasi colui di tali parole, ma passati alcuni giorni s'infermò, ed al fine de' quindici passò all'altra vita. Essendo nel Convento di Castro giovanni, e passando per la piazza della Mola lo chiamò un certo Lonardo Murella, acciò si riposasse nella sua bottega; fermossi egli, e cominciato a ragionare di cose spirituali disse a Lonardo, apparecchiatevi, perche poco avete da fare? non passò un Mese, che s'infermò, e morì con istupore di tutti. In Palermo la figlia del Presidente Rao nomata donna Giovanna Baronessa di Monica, non avendo avuto mai figli, desiderava molto d'averne, e raccomandatasi per questo a Frat'Innocenzo le rispose, state allegramente, che n'averete; passato qualche tempo andò a visitare il servo di Dio, il quale vedendola le disse, già siete contenta, che avete il figlio, non sapendo ella stessa d'esser gravida; e soggionse, lo chiamerete Francesco; scorsi alcuni giorni si scuoprì gravida, ed a suo tempo partorì un figlio maschio, e volle si nomasse Francesco. Quando lo partorì non glielo mostrarono subito, perloche s'imaginava aver partorita femmina, e che per rallegrarla le avessero detto esser maschio, arrivò allora Frat'Innocenzo le scuoprì il suo pensiero, e l'assicurò esser maschio. Nella Città di Piazza parlando con Lisabetta Triolo¹ gli raccontò molte sue tribolazioni, ed egli disse, preparati figlia a tribolazioni assai maggiori. Fra poco tempo le venne una paralisia, che le seccò la metà del corpo, e la privò di loquela, restando muta per 4 anni fin'alla morte. Nella terra di Busacchino² disse ad un divoto dell'Ordine chiamato Filippo Buono, non dare fastidio a tua moglie, perche è gravida d'un figlio maschio, il quale sarà sacerdote, come l'un e l'altro seguì. Dimorando nella Città di Piazza vi andò un suo Nipote di S. Lucia, il quale in vedere il Zio cominciò a piangere. Mirandolo egli gli disse, già io sò, che mia Sorella è morta, non piangere, che tutti abbiamo da morire. Nella stessa Città ragionando un giorno cogl'altri Frati disse ad uno di loro, dite al Padre Guardiano, che faccia recitare l'officio de' Defonti, perche è morto il nostro Guardiano di Palermo. Ciò inteso alcuni Frati andarono a domandargli, donde avesse quell'avviso? gli rispose, sete increduli, già è morto, come fra pochi giorni si seppe. Essendo Confessore delle Monache in Catania disse a Suor Veronica Brandino, apparecchiatevi, che in quest'anno avete a morire; passati alcuni giorni s'infermò gravemente, e ricevuti i Sagramenti entrò in agonia, onde le Monache chiamarono Frat'Innocenzo, acciò andasse a confortarla; rispose egli voler Messa; replicarono le Monache, ch'in tanto quella sarebbe morta; soggionse lui, non dubbitate. Disse Messa, ed entrato nel Monistero convocò tutte le Suore, e fecele pigliare l'indulgenza solita, facendo esso ancora l'istesso colle braccia in forma di Croce, nel qual mentre parve alle Monache, che andasse in estasi, tornato in se disse, abbiamo avuto la grazia, e voltantosi all'agonizzante dicendo, uscite anima, che abbiamo ottenuto la grazia, spirò la Religiosa con allegrezza di tutte le altre. (continua)
 
¹ La famiglia dei Triolo, originaria di Venezia, nel 1445 la troviamo nella nostra Città. Nel 1520 due baroni di questa famiglia sono i proprietari dei feudi Gerace e Geracello.
² Si tratta dell'odierno comune di Bisacquino in provincia di Palermo. 
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Beato frat'Innocenzo Milazzo/5

Il Convento di S. Maria di Gesù dal viadotto sulla S.S. 117 bis
 
Vita del Beato frat'Innocenzo Milazzo
 
Capitolo 5°
(Piazza e Terra di Giuliana, 2^ metà del 1500)
 
(dal Cap. 4°) Acciò per queste grazie non gl'insorgesse qualche vana compiacenza nell'anima, permise il Signore, che i Demoni in diverse guise lo travagliassero dimorando egli nel Convento di Santa Maria di Giesù di Piazza, una notte gli andarono in cella, mentre voleva riposare, e lo gettarono giù dal letto in terra; travagliato non poco dal dolore, i Frati la mattina gli dimandarono che cosa avesse avuta la notte? non voleva egli dirlo, ma richiestone da un Padre suo familiare, gli riferì l'accidente occorsoli. Un'altra volta trovandosi infermo, e facendo la notte orazione su'l letto, nel fine pensando stare in terra, alzò il braccio per appoggiarsi, il Demonio condensò l'aria, onde credendo esser sostenuto, cadde in terra malamente sconquassandosi tutto il corpo, particolarmente la faccia, e si ruppe lo braccio; essendoli poi condotta un'indemoniata, acciò l'esorcizzasse, il Demonio cominciò a burlarlo con dire, come lo feci cadere dal letto! Andato un giorno ad un podere vicino la Terra di Giuliana, fu costretto a restarvi la notte, e dormire nella casa, dove si trovava anco il padrone di quella. S'intesero sopra le stanze grandissimi rumori, ed orrende voci. La mattina il padrone dimandò di ciò il Servo di Dio, il quale gli rispose essere stati Demonj, e che non temessero nulla. Con tutto ciò ebbe egli virtù in conoscere, e discacciarli da corpi. Predicando una quaresima nella Terra di Giuliana andò per visitarlo un'uomo chiamato Maestro Bernardino Costa della Terra di Chiusa, e dettolo al Compagno, gli rispose, che non era ora, mentre stava preparandosi per la predica, perloche si pose a sedere, e ragionare col detto Compagno, nel qual mentre entrò ivi un'uccello, e camminava per la casa; dimandò Bernardino di chi fosse quell'uccello, disse il Frate, che non lo sapeva, ma credeva fosse di qualche vicino, onde colui si mise per pigliarlo; l'uccello volò sopra un'albero dentro un'orto ivi da presso, e colui lo seguì, all'ultimo passò sopra un certo muro, e quegli voleva salirvi, ma s'affacciò il Padre Frat'Innocenzo, e gli disse, dove vai Maestro Bernardino, non vedi, che quello è il Demonio, che procura farti cadere? ed in quel punto l'uccello subito sparve. Dimorando nel Convento di Santa Maria di Giesù di Piazza un giorno alcune persone vi condussero un'indemoniata, e dimandarono il Padre Frat'Innocenzo, il quall'allora era infermo; pregato da Frati a consolarla, e mosso da pietà discese al meglio che puotè in Chiesa, ed assentatosi nel Confessionale costrinse la donna ad andare ad inginocchiarseli davanti; le fece sopra il capo il segno della Croce, e detta certa orazione restò quella libera dal Demonio, ringraziandone Iddio, ed il suo Servo. (continua)
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Il frutto sacro agli Aztechi

Azteco (dal XIV al XVI secolo)
U cavàgn cû cöpp p' cöggh'li¹

I f'cudìni

I fichi d'India (ma i f'cudìni a ciaccësa sunu a föm'nina)² sono chiamati così perché copiosi maturano nello stesso periodo e crescono nelle stesse zone dei normali fichi, e poi perchè provenienti dal continente che gli Spagnoli in un primo momento pensavano che fosse l'India. Infatti, la prima apparizione di questo frutto nel Vecchio Mondo la si ebbe nel 1493, al ritorno della prima spedizione di Cristoforo Colombo. Questo navigatore nel Nuovo Mondo (isole dei Caraibi) trovò, tra le nuove specialità, anche la Cactus Opuntia ficus-indica originaria del Messico centrale. Forse già conosciuto dagli Incas nel XIII secolo, è sicuro che lo coltivavano e commerciavano nel XIV secolo gli Aztechi (o Mexicas) che la consideravano una pianta sacra con forti valori simbolici, in specialmodo per il carminio, pregiato colorante naturale che se ne ricava. A f'cudìnnia ha un notevole valore nutrizionale perchè ricco di minerali e di vitamina C, se consumata in quantità eccessiva può causare stitichezza, pertanto va consumato accompagnato da pane, in caso contrario s resta 'ntuppà³. Come tutti i frutti delle nostre campagne anche i f'cudìni contribuivano, sino a 60/70 anni fa, all'ntegrazione alimentare dei nostri genitori e progenitori. A Piazza era sicurissimo trovare in questo periodo dell'anno, a Santa R'sulìa o sötta u bastiöngh dû ciàngh Duiliu,4 chi vendeva questi frutti colorati ntê cavagni a cinqu 'nsordu.4 E tale era la velocità nel mangiarle che i giovanotti, prima di rientrare a casa dal lavoro si fermavano in questi posti per fare una sorta di Happy hour e, per non perdere tempo e avendo le mani impegnate, indicavano a f'cudìnnia d' munnàr cû pè.6 Per finire non voglio dimenticare a mustarda ch' 'mpiattan'la s' ggh' mént d' 'ncav mennuli e n'zzöli masg'nadi... s' fa r'fr'ddè e poi s' mangia o s' mènt a sciuè!7
 
¹ Il cesto col cartoccio di lamiera per raccoglerli.
² I fichi d'India alla piazzese sono al femminile.
³ Si rimane otturati.
4 A Santa Rosalia o sotto il bastione del piano Duilio.
5 Nei cesti a cinque un soldi.
6 Il fico d'India da sbucciare col piede.
7 La mostarda che impiattandola ci si mette sopra mandorle e nocciole macinate... si fa raffreddare e poi si mangia o si mette ad asciugare.
 
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  • Pubblicato in Cose
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Beato frat'Innocenzo Milazzo/4

Convento francescano di S. Maria di Gesù, lato Est
Vita del Beato frat'Innocenzo Milazzo
 
4° Capitolo
(Piazza, Catania e Palermo 2^ metà del 1500)
 
(dal Cap. 3°) Un'altra volta ordinò ad un Frate per difetto commesso, che mangiasse in terra pane, ed acqua, ma poi compassionandolo, e ripreso se stesso interiormente, fè assentar quello alla mensa, ed esso inginocchiatosi in terra fece la detta penitenza. Era sì continuo nell'orazione, e contemplazione, che vi spendeva le notti intiere, ed anco il giorno, quando non era dall'Ubbidienza, o dalla Carità occupato, ricevendo in essa grazie particolari dal Signore: ebbe il dono dell'estasi, conforme fu più volte osservato da Frati. Trovandosi infermo nel Convento di Santa Maria di Giesù di Piazza, andò una notte a visitarlo Fra Girolamo da Piazza¹, ed aperta la cella lo vidde inginocchione colle mani in Croce, e colla faccia alzata al Cielo davanti un Crocifisso alienato da sensi tutto risplendente, del che fu stupito, mirato che l'ebbe un poco, si partì. Quando dimorava nell'Oratorio della Montagna di Palermo, e vi andava quel Frate, che aveva cura di portarli il pane, e l'acqua per reficiarsi, era d'uopo bussasse più volte la porta, ed aspettasse buon pezzo, trovandosi nelle contemplazioni astratto da sensi. Essendo Confessore delle Monache di Santa Chiara in Catania fu veduto da alcune di esse nell'orazione in estasi. Ogni giorno oltre l'officio d'obligo diceva i sette Salmi Penitenziali, l'Officio della Beata Vergine, de' Morti, e molte altre divozioni quasi tutte inginocchione. In ogni tempo di giorno, o di notte, solo, ed accompagnato camminando per il Convento, o fuora, senpre recitava Salmi, o Inni, o latre divozioni. Celebrava la Messa con indicibile fervore di spirito, onde e Frati, e Secolari andavano apposta per udirla, sentendosi tutti accalorare nella divozione per vederlo come estatico, tremare, e spargere copiosissime lagrime. Celebrando una volta nella festa di S. Maria di Giesù nel nostro Convento di Palermo l'ultima Messa, mentre tutti i Frati erano alla mensa, quello, che lo serviva, era un giovanetto secolare, che poi fu nostro Frate, vidde che fatta la consegrazione divenne tutto risplendente nella faccia, ma l'Ostia consegrata, ed il Calice assai più risplenti senza paragone, avendo prima sparso gran copia di lagrime. Continuò detto splendore finche il Padre si comunicò, non sapendo il Giovanetto che cosa fosse; ma rientrato in Sagrestia, terminato il Sagrifizio, gli disse F. Innocenzo, figlio dello splendore che hai veduto non dire niente a nessuno; onde comprese essere stata cosa sopranaturale, e ne resto consolatissimo. Essendo in orazione nella Chiesa del Monistero delle Monache sudetto in Catania, ed esse Monache parimenti in orazione ne' loro Oratori, entrò una Rondine, e cominciò col suo strepitoso garrire a disturbarlo, ma comandandoli egli, che tacesse, subito ubbidì, e così stette finche fosse finita l'orazione. Passando un giorno per un luogo, ove erano alcuni ferocissimi cani, ed andando davanti a lui certi secolari, li cani latrando terribilmente gli uscirono incontro; in arrivando il P. Frat'Innocenzo s'acchetarono, e divenuti mansueti se gli accostarono con allegrezza careggiandolo. (continua)
¹ Probabilmente trattasi del nobile fra Girolamo Cagno ricordato per aver ingrandito nel 1562 la grande cappella della chiesetta fuori le mura di S. Pietro e il <<quadrato circondato da colonne nel presbiterio>> della stessa chiesa.
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Beato frat'Innocenzo Milazzo/3

Parte del frontespizio del libro dal quale è tratta la vita di fra Innocenzo
Vita del Beato frat'Innocenzo Milazzo

3° Capitolo

(Palermo, S. Anna di Giuliana e Piazza, 2^ metà del 1500)

(dal Cap. 2°) Dal tempo, che passò nella Riforma fin'all'ultimo di sua vita visse con rigida asprezza, che dava ammirazione ad ognuno. Digiunava tutte le quaresime del P. S. Francesco quasi sempre in pane, acqua, ed erbe; dormiva sù la nuda terra, portava asprissimi cilizi, e per molto tempo vestì sù la nuda carne un giacco di ferro sin'all'effusione del sangue; vigilava quasi sempre per continuare l'orazione, e sentendo per questo qualche resistenza nel corpo bisognoso di sonno, egli per vincerla pigliava sù le spalle grossissime pietre, e spasseggiava per il Chiostro, con che venne a ridurre il suo corpo a tal'ubbidienza circa il sonno, che non aveva ora determinata per quello, ma quando voleva vegliare, vegliava, e quando voleva riposare dormiva senza contradizione alcuna. In alcune quaresime intiere soleva fare gl'esercizi spirituali de' Romitorj solitario in qualche Oratorio, particolarmente nella Montagna di S. Maria di Giesù di Palermo, dove un Frate gli portava un poco di pane, ed acqua ogni giorno. Riputavasi il maggiore peccatore del Mondo, aveva sempre nel pensiero, che tutti siamo pellegrini in questa valle di lagrime, e però sottoscriveva le lettere, F. Innocenzo Pellegrino; portava sempre abiti vecchi, e rappezzati lasciati da Frati, non usandone mai nuovi, procurava a tutto potere esser dispregiato da ognuno, ed acciò i nobili, e personaggi non facessero di lui conto veruno, gli parlava alla grossolana, sebbene quelli perciò più lo stimavano. In Convento faceva esercizi umili, e di mortificazione. Alle volte in giorno di digiuno, e penitenza s'appiccava al collo un vaso di Creta, e chiedeva nel Refettorio limosina per amor di Dio, e di quello i Frati li davano, si cibava in terra inginocchione; s'ingegnava sovvenire il prossimo non solo colla predicazione, confessione, e buoni documenti, ma anco nelle necessità corporali. Una mattina per tempo abbattè un Novizio, che andava all'officio, e guardandolo gli disse, fratello mi sembrate molto debole; gli toccò il polso, e conosciuto esser tale, e che per vergogna non lo diceva, il condusse alla Canneva, e lo fece ristorare, essendovi egli presente. Un'altra volta dimorando nel Convento di S. Anna di Giuliana¹, essendo una gran penuria, e caduta molta neve, andò alla porta del nostro Convento numeroso stuolo di poveri a chiedere limosina, e non avendo, che dargli il Servo di dio, presosi un Frate per compagno andò per la neve alla Terra, fè la cerca del pane per i poveri, quali condusse seco; la Gente vedendolo camminar per la neve, gli diede copiosa limosina di pane, qual'egli distribui a necessitosi. (continua)
 
¹ A 2 Km. da Chiusa Sclafani (Pa). Il Convento è uno dei luoghi cruciali del francescanesimo siciliano. Nel 1534 passò ai frati minori riformati sotto la guida di fra Simone da Calascibetta (lo stesso fra Simone Napoli da Calascibetta che si ritirò presso il nostro convento di S. Maria di Gesù) per condurre una vita da anacoreta con altri seguaci, tra i quali fra Innocenzo Milazzo da S. Lucia del Mela.
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Famiglia Sceberras

Partito: nel primo d'azzurro alla corazza sormontata da un elmo, il tutto d'argento e di fronte; nel secondo troncato da una fascia d'argento carica di una fede di carnagione. Sopra d'azzurro a tre stelle di sei raggi, sotto di rosso a tre pali ondati d'oro. 
Famiglia originaria di Malta giunta in Sicilia nel XVIII secolo, il capostipite fu un certo Leonardo Xeberras¹ sposato con Donna Antonia di Blundio² alla fine del Quattrocento. A Piazza troviamo nel 1789 Antonio Sceberras Testaferrata (1756-1843) figlio di Pasquale (1735-1812) e Lucrezia Dorell, proveniente da Malta e 13° barone di Castel Cicciano (NA) che viene nominato dal Viceré capitano di giustizia. Nel 1792, avendo sposato Girolama Trigona, figlia di Francesco Paolo barone di Montagna di Marzo, Budonetto e Vallegrande, risulta barone di questi feudi. Negli anni 1798, 1801 e 1812 è capitano di giustizia. 1828 Francesco Sceberras-Trigona è 1° eletto (vicesindaco) e nel 1839 è proposto a consigliere distrettuale. 1836 Vincenzo Sceberras-Trigona è 1° eletto, nel 1843 è sindaco e nel 1848 è maggiore comandante di battaglione della Guardia Nazionale Rivoluzionaria. Nel 1860 è tra i 34 componenti del Comitato Rivoluzionario di Piazza che si riunisce nell'abitazione del dott. Vincenzo Bonifacio, oggi in Via Bonifacio, e decide per la rivoluzione del 18 maggio. Nel 1861 è tra i consiglieri comunali sino al 1865. 1837 Corrado Sceberras-Trigona barone di Montagna di Marzo è decurione (consigliere comunale) e nel 1839 è nominato sindaco sino al 1843. Nel 1848 i suoi figli contribuiscono al prestito al Parlamento Siciliano che si prepara alla guerra contro il generale borbonico Carlo Filangeri. Stessa cosa fanno i fratelli Francesco, Vincenzo, Gaetana e Calogera Sceberras-Trigona. 1898 Girolama Sceberras è la moglie del grosso feudatario Francesco Camerata da Butera Sindaco di Piazza nel 1890/93 e 1898/1901. 1903 il barone Giuseppe Sceberras è consigliere comunale. 1960 Giovanna Sceberras, figlia di Liborio Sceberras dei baroni di Montagna di Marzo e Budonetto, fonda un pensionato per signore sole o anziane con sede nel proprio palazzo di via Vitt. Emanuele angolo salita Sant'Anna. Nata a Piazza Armerina nel 1888, muore nubile nel 1971 sempre nella nostra Città. Di questa famiglia abbiamo l'unico blasone nella nostra Città sull'arco del balcone del palazzo di cui sopra â calàta û Cullègg. Nell'ottobre 2016 vengo a conoscenza di un altro stemma di questa famiglia affrescato sul soffitto della prima sala del palazzo Camerata (già palazzo di Starrabba principe di Giardinelli) di via Garibaldi 80, dove si notano altri elementi in aggiunta a quelli nella foto dovuti a unioni di ogni natura come matrimoni, annessioni di feudi, etc. Nel quarto in basso a sx c'è un toro che troviamo nello stemma dei Testaferrata (toro vermiglio in campo d'argento nella loro cappella dedicata a Sant'Ignazio nella chiesa dei Gesuiti alla Valletta) a cui faceva parte il cardinale di qui sotto, nel quarto in basso a dx è presente quella che sembra una torre (che potrebbe rappresentare il castello nel blasone del comune di Butera di cui era originario Francesco Camerata), nel piede c'è un triangolo (richiamante la parentela con la famiglia Trigona), il tutto sormontato da un copricapo da cardinale, per ricordare il titolo raggiunto da un membro della famiglia e precisamente da Fabrizio Sceberras Testaferrata (1757-1843), cardinale in pectore nel 1816 e confermato da papa Pio VII nel concistoro del 1818.
 
¹ Altre trasformazioni: Xiberras, Sceberas, Sciberras.
² Discendente da Stefano Blundo (poi Blundio) regio Secretario che nel marzo del 1415 è reso da re Ferdinando I il Giusto, proprietario di metà feudo Imbaccari nel territorio di Piazza in Sicilia. Ma per essere stato già concesso dall'Infante Giovanni di Pagnafiel Vicario Generale del Regno a un nobile palermitano, gli venne sostituito nel 1416 coi feudi Tabia e Gharyxem nella sua madrepatria, l'isola di Malta.  
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Beato frat'Innocenzo Milazzo/2

Il convento francescano di S. Maria di Gesù primi '900
Vita Beato frat'Innocenzo Milazzo

Cap. 2° 
(Girgenti e Piazza, 2^ metà del 1500)

(dal Cap. 1°) Un fascio di viti era il suo letto, ed un'altro il capezzale. Se nel viaggio gli occorreva passare per qualche villaggio, o podere in cui fossero i lavoratori, la sera gli faceva un devoto sermone, poi tutti insieme facevano una buona disciplina. Predicando una quaresima nella Chiesa del nostro convento di Girgenti distante più di un miglio dall'abitato, e la strada fatigosa, nondimeno era tanto il concorso del popolo, che quantunque la Chiesa fosse molto capace più volte li fu d'uopo predicare sù la porta della Chiesa. Perloche gl'altri Predicatori, che allora predicavano in quella Città, andarono a sentirlo per vedere chi era questo Padre, al quale andava il popolo, e trovarono, che predicava cose moralissime, ed ordinarie, ma con apostolico spirito, e fervore sì grande, che avrebbe tirato tutto il Mondo; l'ubbidivano, e riverivano come un Santo mandatoli da Dio. Se per le sue infermità non avesse potuto camminare per andare a predicare, particolarmente essendo vecchio, si faceva portare da un Giumento fin' alla Città, e sebben infermo saliva in pulpito a predicare. Ne' discorsi familiari non parlava, che di cose spirituali, con tal' efficacia, che faceva grandissimo frutto. Essendo nella Città di Piazza un Barone di pessima coscienza, parlandogli questo Servo di Dio, l'indusse a confessarsi, e lo ridusse a viver bene, onde divenne di buona coscienza, e divotissimo de Frati. Occorrendoli parlare con donne ragionava due, e tre ore di cose spirituali sempre in piedi, solo appoggiato ad un suo bastoncello, cogl'occhi fissi in terra, nè mai alzò lo sguardo a mirarne alcuna nel viso. Procurava levare la vanità dalle donne tanto nelle prediche quanto ne' ragionamenti privati, facendo si togliessero i pendenti, le collane, ed i capelli acconci, dicendo in quelle vanità abitare i demoni, come cose inventate da essi: faceva tagliare le code, che portavano alle vesti, affermando, che sopra di quelle per le strade, e nelle case vi ballavano i demoni, con che bandiva quelle diaboliche usanze: esortavale a vestire onestamente da cristiane non per esser vagheggiate, nè vaggheggiar altri con tanti attillamenti, ed abbigliamenti, con che molte si emendavano, avendolo in concetto d'uomo Santo. Aveva questo Servo di Dio un'ardentissimo desio di morire per Cristo mediante martirio, e ne pregava sempre il Signore, e chiedeva a superiori d'andare tra gl'infedeli. Ottenutane licenza dopo molte istanze, il compagno si pose all'ordine per imbarcarsi, e fece orazione all'Altissimo, che se così gli era grato, l'aiutasse a conseguirlo, altrimenti l'impedisse: nel giorno medesimo determinato al partire s'infermò gravemente, e lo sorpresero diverse malattie, dal che conobbe non esser voler di Dio che andasse altrove, ma attendesse a servirlo nella stessa Provincia, in cui le infermità martirizato l'averìano, sopportando con invitta pazienza una continua oppilazione d'eticia, sciatica, male di fianco, ed una molestissima rottura, quali cose lo cruciarono con accerbissimi dolori. (continua)
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