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Gaetano Masuzzo

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Sodalizio dei Falegnami

Chiesa di S. Giuseppe dove si riuniva il Sodalizio
Sodalizio dei Falegnami
Nella nostra Città un altro Sodalizio con tanti iscritti fu quello dei Falegnami e degli Ebanisti, che come punto di raccolta e di riferimento aveva la chiesa di S. Giuseppe, lungo la strata di la carrera oggi via Mazzini. I falegnami sono quegli artigiani che lavorano il legno per la fabbricazione e riparazione di mobili, infissi e altre suppellettili. In passato l'attività era associata esclusivamente al lavoro in bottega o, raramente, in piccole aziende come le segherie. Gli ebanisti o ebanisti mobilieri sono, invece, quei falegnami specializzati nella lavorazione di legni pregiati (una volta veniva usato esclusivamente l'ebano, da ciò il termine) che possiedono la conoscenza delle varie tecniche di intaglio, quando si utilizzano svariate qualità di legno, e di intarsio, quando si utilizzano anche altri materiali, come l'avorio. A Piazza questi artigiani erano numerosissimi e quando gli iscritti al Sodalizio, per la festa di S. Giuseppe, si mettevano in doppia fila parallela tenendo il cordone blu, arrivavano sino in Piazza Garibaldi. Sino agli anni 40 questi artigiani usavano esclusivamente l'olio di gomito ovvero i muscoli delle braccia. Era rarissimo trovare una bottega che usasse macchinari elettrici come la sega a nastro, la pialla, la tupia (dal francese toupie = fresatrice), sia perché l'elettricità non era tanto diffusa e sia perché molto costose. Per questi motivi, ma soprattutto per il secondo, qualche falegname un po' più inventivo e ingengnoso degli altri (come mio padre Gino nel dopoguerra), si spingeva nella creazione, in maniera del tutto "artigianale", degli attrezzi sopra elencati all'80% in legno di noce o samuchèdda (acacia), rovere, pero, olmo, perché le parti non in legno erano rappresentate soltanto dal motore, dall'asse e dai cuscinetti a sfera. Quando si riusciva nell'intento, era quasi incredibile per le troppe difficoltà che si erano dovute superare, sia nel reperire i pezzi meccanici, allora introvabili, sia nella messa a punto, perché un errore significava rischiare la perdita di qualche parte del corpo, specie quelle più distali degli arti. Il risvolto economico era importante, ma per questi artigiani contava molto di più la soddisfazione di vedere a distanza di anni un loro manufatto in condizioni tali da svolgere ancora perfettamente la funzione per la quale era stato creato, per esempio era un vanto vedere ch' 'na porta nan era p' nènt strammàda. Nei prossimi post saranno elencati gli 80 nomi dei vecchi e dei nuovi falegnami.
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Cripta al Carmine

La cripta che si scorge all'ingresso, sotto il vetro
Appena si entra nella chiesa del Carmine si scorgono dal vetro sul pavimento i resti della cripta. Le cripte nell'architettura medievale sono camere ricavate sotto i pavimenti delle chiese, destinate al trattamento dei cadaveri, rispondenti ai rituali caratterizzati dalla concezione della morte come passaggio prolungato. Ovvero, dopo la morte si adottano vari sistemi affinché le parti molle del corpo vengano trasformate in qualcosa di immutabile e duraturo come le ossa o la mummia, per consegnarlo all'eternità del sepolcro definitivo regolandone nei migliori dei modi la putrefazione. Il sistema adottato nella cripta del Carmine è quello chiamato dei colatoi a seduta, noti a Napoli come cantarelle e diffusi in tutto il meridione d'Italia, mentre l'altro tipo, colatoio orizzontale, è diffuso prevalentemente in Sicilia. La cripta mostra lungo le pareti una serie di nicchie provviste di sedili in muratura ciascuno dotato di un foro centrale. Il cadavere del defunto, di solito un frate del convento o un nobile frequentante e in stretta relazione con l'edificio religioso, era collocato in posizione seduta in modo da far confluire i liquami, prodotti dalla putrefazione, direttamente all'interno del foro collegato ad una canaletta di scolo, circondata da sabbia per eventuali fuoriuscite. Nello stesso ambiente erano presenti (qui completamente sparite) l'ossario e alcune mensole in muratura. Una volta terminato il processo di scolatura, lasciando così le ossa libere dalla parte putrescibile, il cranio, simbolo dell'individualità del defunto, era posizionato sulla mensola, le altre ossa venivano spostati nell'ossario. In questo modo il ciclo funerario, iniziato con la morte dell'individuo, si concludeva con la sua scheletrizzazione, ed aveva una durata che poteva variare sensibilmente da un minimo di pochi mesi a un anno e più, in conseguenza delle condizioni climatiche dell'ambiente sepolcrale e della stagione della morte. Fin quasi allo scadere dell'Ottocento, contemporaneamente agli sforzi dell'autorità di governo di istituire camposanti in periferia, le élite considerarono l'esposizione del corpo mummificato come una forma per conservare l'individualità fisica del defunto e manifestare oltre la morte il suo status sociale. Prima della nascita dei camposanti monumentali, luoghi di memoria e di consolazione che avrebbero consentito la visita alla tomba individuale, il corpo mummificato costituì il monumento funebre da offrire alla vista e alle preghiere dei viventi. Gaetano Masuzzo/cronarmerina

I f'rrètti

Gioco praticato esclusivamente dai maschi, salvo qualche rara eccezione, per strada, meglio se no curtìcch (nel cortile). L'attrezzo indispensabile era formato da due pezzi di legno, uno quasi il triplo dell'altro, quest'ultimo con le estremità appuntite per permetterne il sollevamento da terra una volta colpito dall'altro, per poi ricolpirlo al volo. Lo potevamo considerare un misto tra i giochi del baseball e del cricket, anche se con regole diverse. L'obiettivo principale era quello di conseguire più punti dell'avversario. I punti erano determinati da quante volte il ferrètto più grande, in possesso da chi era in base, copriva la distanza tra la base (di solito un grande sasso) e il ferrètto più piccolo, più lontano si lanciava questo più erano i punti da contare. Il gioco iniziava col lancio del legno piccolo verso la base, se non veniva colpito al primo lancio il giocatore in base veniva eliminato e i ruoli s'invertivano. Stessa eliminazione avveniva se il legnetto colpito era recuperato al volo dal lanciatore, con le mani o aiutandosi con qualche indumento (il guantone nel baseball). Se il legnetto invece cadeva a terra, da quel punto il giocatore della base aveva diritto a colpire col suo legno grande quello piccolo, alzandolo e colpendolo al volo. Questa operazione si effettuava per tre volte, alla fine si contava la distanza tra la base e il legnetto piccolo mettendo quello grande per terra, di seguito. Tutto filava liscio sino a quando il primo lanciatore, e vi assicuro avveniva spesso, non pronunciava la famosa frase "SPÙT'LA C'È CÒSA!". Ovvero con questa frase (io sputo sul ferrètto più piccolo, in maniera più che evidente a tutti i giocatori e non, per cautelarmi da ogni contestazione che potesse nascere durante l'azione di gioco, per mio o altrui errore) ci si metteva a riparo da ogni problema. Invece, il più delle volte, era il finimondo! Il gioco, oltre a quelle volte che degenerava in rissa, in genere era un po' pericoloso. Infatti, se il giocatore in base era uno molto esperto, il ferretto piccolo colpito violentemente poteva causare con le estremità appuntite seri danni agli altri che giocavano o soltanto assistevano, per non parlare dei vetri alle finestre prospicienti "il campo da gioco". Ora che ci penso, era veramente raro vedere nei paraggi animali domestici assistere al gioco, chissà perché?
Questo gioco in Italia prende i seguenti termini:
A màsa, il pìndoeo, il ciàncol e el sciànco nel Veneto; a lìppa in Liguria; a nìzza nel Lazio; u ciàc't in Puglia; u pìzzu o a pìzzica in Calabria; a màzza e o pivèzo in Campania.
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Famiglia Naselli

D'azzurro alla fascia d'oro sormontata da un leone nascente in oro e accompagnata in punta da tre palle d'oro.
La famiglia Nasitto poi Naselli scende dal nord Italia, forse da Piacenza, al tempo di Federico II di Svevia nel 1234 ca. Nel 1296 troviamo a Plasia Nicola Naselli (appartenente a un ramo cadetto di Liutprando re dei Longobardi nell'VIII sec.) che ha ottenuto il feudo Mastra (tra Mazzarino e Riesi). La famiglia vive per tutto il '300 e il '400 nella nostra Città, sino a quando si insignisce di Comiso nel '500. 1408 e 1421 Riccardo, figlio di Pietro, possiede il feudo Mastra e, nel 1416, è Cavaliere Ospedaliere di Malta. 1416 i Naselli sono tra le quattro famiglie di grandi feudatari della nostra Città che fanno parte del braccio militare del Parlamento del Regno. 1422 Bernardo è Cavaliere Ospedaliere. 1438 da re Alfonso V d'Aragona Pericono (alias Perricone, Periconio) de Naselli riceve in feudo l'Ufficio del notariato della Curia del Capitano della Terra di Plazza. Ottiene anche l'esenzione da collette, tasse, donativi e gabelle per sè, per il padre, per i fratelli Giovanni e Ruggero e per tutti gli eredi maschi, oltre alla facoltà di portare qualsiasi arma e nel 1455 diventa barone di Comiso. Nel 1439 Valeriano e nel 1467 Coriolano sono Cavalieri Ospedalieri. 1492 Pietro Antonio, barone di Comiso e Mastra, è Secreto della Città (riscuoteva le gabelle e i dazi) e fa edificare l'abside della chiesa di S. Francesco a Comiso per destinarla a cappella funeraria per la propria famiglia. Nel 1500 i Naselli pur mantenendo nel nostro territorio il loro feudo Mastra, si trasferiscono prima a Comiso e poi ad Agrigento, dove li troviamo in strenua lotta contro i Montaperti. 1556 Naselli Baldassare II è barone di Comiso e Mastra (è seppellito nella chiesa di S. Francesco a Comiso a sx nell'abside). 1598 Baldassare III è conte di Comiso e di Mastra e nel 1605 ottiene la licentia populanti per il suo feudo di Diesi fondando il paese di Aragona (vicino Agrigento), dandogli il nome della madre Beatrice d'Aragona. 1621 Luigi è conte di Comiso e di Mastra, nel 1625 è nominato principe di Aragona e nel 1640 ca. viceré della provincia di Cosenza. 1634 i Naselli vendono il loro feudo di Mastra ai Miccichè. 1674 Baldassare IV è conte di Comiso e Vicario della Milizia di Agrigento, Licata, Platia e Caltagirone. 1713 Francesco è barone di Bugidrano (presso Niscemi). 1790 ca. Diego è barone di Bugidrano e nel 1819 è luogotenente generale borbonico che fugge a Napoli. Gaetano Masuzzo/cronarmerina.blogspot.it
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