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Cronarmerina - Novembre 2024

1^ Veduta della Città

Paolo Piazza, Madonna degli Angeli, 1612 ca., Piazza Armerina, chiesa Cappuccini
 
Particolare del dipinto con la 1^ veduta della città di Platia
Questa è la prima veduta, in assoluto, che abbiamo della nostra Città. Si tratta del particolare al centro del dipinto della Madonna degli Angeli (chiamata anche Madonna delle Grazie e Santi) che si trova presso la chiesa di Maria SS. delle Grazie dei Padri Cappuccini, al piano Sant'Ippolito. Il dipinto del 1612 ca. è opera del pittore Paolo Piazza (1560-1620), e il particolare rappresenta la nostra Platia all'inizio del XVII secolo, vista dal borgo Casalotto, portata in dono su un vassoio, dai Santi alla Madonna. In maniera molto netta si individua in primo piano la Porta di S. Giovanni Battista con, subito a dx, la Commenda. In alto a sx è inconfondibile il Castello Aragonese e, al centro in alto, la Chiesa Madre col campanile svettante (gli ultimi due livelli sono stati completati nel 1581) ma ancora senza la cupola. Nel periodo in cui viene dipinto il quadro, si discute se abbattere completamente la vecchia Chiesa Madre, per ricostruirne una di sana pianta, o abbatterne una parte perché struttura molto bella, ben fatta e resistente e perché la demolizione è considerata molto dispendiosa. Inoltre, nel 1614 riprende la ricostruzione del Vescovado demolito nel 1607 per l'attuazione del progetto iniziale della nuova Chiesa Madre, l'opera viene affidata a Giovanni Domenico Gagini junior (alias Gian Domenico Gagini II). In questo sito altre 10 vedute della Città.
 
 
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Perché via Chiarandà

Stemma Padre Antonino Chiarandà nella pianta della Città del 1689
D'azzurro alla fascia d'oro, sormontata da un uccello fermo d'argento
Guardando bene l'antica pianta della Città di Platia, pubblicata l'11 febbraio scorso, potete notare come in cima vi sia uno stemma che non è quello di Piazza, come ci saremmo, invece, aspettati. Infatti, si tratta del blasone del Padre Gesuita sacerdote, giureconsulto e commissario del Tribunale dell'Inquisizione, Antonino Chiarandà (1611-1666), al quale è stata dedicata un'importante strada della nostra Città. Questo stemma lo troviamo nell'antica pianta del 1689, in quanto fu disegnata in occasione dell'inaugurazione dell'apertura del Collegio e Università degli Studi di Piazza intitolata proprio a Don Antonino Chiarandà. L'Università, che si chiamava anche Università di Studia Superiora o Seminario Generale di Teologia, poté essere istituita, grazie ai proventi non solo dell'eredità di Antonino Chiarandà, ma anche di quella di un altro Padre Gesuita, Antonino Panitteri, e di quella del canonico Giovanni Lo Ciccio, ambedue piazzesi. Nel 1826 un decreto di re Francesco I riformò le Accademie e i Collegi dell'Isola, lasciandovi soltanto i corsi di lettere, filosofia e matematica, dando vita ai Regi Licei di Sicilia (5 in tutto) ridimensionandoli così a istituti medi superiori propedeutici agli studi universitari. Di questo ridimensionamento dell'Accademia di Piazza cercò di approfittare la città di Caltanissetta che, considerando il nostro Liceo non più al livello di un istituto di Gesuiti, provò a stornare il ricchissimo lascito della fondazione Chiarandà, soltanto per il sostentamento della Comunità gesuitica che aveva in città. Ne nacque un'annosa vertenza che ancora nel 1866 non si era spenta, sino a quando le leggi di soppressione degli Enti religiosi non incamerarono tutto, salvo le opere di beneficenza e gli istituti di istruzione. Ma il cambio di destinazione, che era stato fatto precedentemente dai Gesuiti di Caltanissetta, fu fatale, e in questo modo tutta l'eredità andò perduta. 
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1° Santo Compatrono

La chiesa di S. Vincenzo Ferreri

 1° Santo Compatrono, San Vincenzo Ferreri

 
Nel 1455 il Papa proclamò santo Vincenzo Ferreri. Nato in Spagna nel 1350 a 17 anni entrò nell'Ordine dei Domenicani. Uomo saggio, fu spesso richiesto come arbitro e consigliere di pubbliche associazioni, nonché di famiglie nobili e popolari. Morì in Bretagna nel 1419. Il Padre Domenicano Vincenzo Pistoia del convento Domenicano di Plaza¹, essendo stato miracolato in gioventù, ucciso di spada e buttato nelle fiamme, era stato richiamato in vita miracolosamente da San Vincenzo Ferreri, alla proclamazione di santità fu invaso da sacro ardore: non solo convinse popolo ed autorità a dare inizio alla costruzione di una chiesa in onore del nuovo Santo, ma propose ed ottenne di proclamare lo stesso, patrono della città di Piazza. Il Pistoia morì a Plaza nel 1466 in odore di santità e i lavori per la costruzione della chiesa di San Vincenzo, iniziati nel 1470 proprio accanto al convento dei Domenicani (poi Seminario Vescovile), cessarono essendo venute meno le pubbliche donazioni. Dopo circa un secolo l'edificio incompleto fu concesso al sodalizio di San Vincenzo e dei SS. Crispino (non Cipriano²) e Mercurio³, con l'obbligo di completare la chiesa. Nel 1578 fu decisivo il contributo del nobile piazzese Giuseppe Starrabba che, insieme ad altre elargizioni, ultimò i lavori di costruzione. Lo Starrabba oltre a essere conte di Naso era barone di Gatta, Bimisca e Scibìni (dove dal suo discendente, il principe Gaetano Maria, nel 1756 fu fondato il paese di Pachino). Alla sua morte, nel 1610, venne seppellito in un sarcofago, ancora esistente, nella chiesa di San Vincenzo, in fondo alla navata, a sx dell'altare maggiore. Ed eccovi spiegato perché nella chiesa, da tempo chiusa, vi si trovano innumerevoli stemmi di questa famiglia.  
 
¹ Come anche veniva chiamata la nostra Città nel XV secolo.
² Nel marzo del 2018 ho riscontrato l'errore di copiatura, effettuato a suo tempo dallo storico Litterio Villari, nel riportare quanto da lui appreso dal manoscritto Chiese conventi ed istituti di Filantropia in Piazza di Alceste Roccella. Questi, infatti, aveva scritto «Sodalizio dei SS. Crispino e Mercurio» e non, come riportato dal Villari, dei «SS. Cipriano e Mercurio». In effetti San Crispino è ricordato come protettore dei calzolai e dei conciatori perché come il fratello, San Crispiniano, aveva scelto di fare il calzolaio.
³ L'11 agosto del 2012 il quadro, rappresentante il Santo di autore ignoto del 1609, è stato presentato al pubblico, presso la Pinacoteca Comunale di Piazza Armerina, grazie al vescovo Pennisi a cui il quadro appartiene e che ha voluto condividere l'opera con i cittadini e i turisti. «All’inizio si pensava che il dipinto raffigurasse San Mercuriale tradizionalmente indicato come il primo vescovo di Forlì, successivamente si è giunti alla conclusione che si tratta di San Mercurio un santo militare che visse in Cappadocia. Sembra che l’artista abbia ripreso  il modo di dipingere molto diffuso in Sicilia intorno al quattrocento, in particolare del pittore Filippo Paladini, ponendo il santo al centro e raffigurando ai lati delle scene della sua vita» in <https://www.startnews.it/startmobile/stampanews.asp?key=6021> ultima lettura 19/10/2021. Da qualche anno il quadro rappresentante San Mercurio si trova nella sede originaria, ovvero in un altare minore a dx della navata della chiesa di San Vincenzo Ferreri. La presenza di San Mercurio nell’intitolazione del Sodalizio, della statua e di un quadro in un altare della chiesa, si spiega perché “Mercurio”, nella mitologia romana, è il dio dei commerci e, in quella greca, corrisponde a Hermes figlio di Giove, dio, tra le altre cose, dei viaggiatori, dei pastori e mandriani, dei poeti, dell’astuzia e del commercio. San Mercurio fu un martire soldato scita, decapitato intorno al 250 d.C. perché, assurto al grado di generalissimo dell’esercito romano, non ripudiò il suo battesimo e che, più di cent’anni dopo, nel 363, la leggenda dice che fu l’uccisore di Giuliano l’Apostata per ordine della Vergine Maria. Il culto del Santo venne nell’Italia meridionale assieme ai Bizantini nel VII secolo, quando portarono con sé i resti di San Mercurio e di altri santi, per essere aiutati nella vittoria contro i Longobardi. Il secolo successivo lo troviamo venerato, assieme ad altri cavalieri celesti (S. Demetrio e S. Giorgio), dai Longobardi prima e dai Normanni dopo, durante la prima Crociata. (cf. Giovanni Mascia, San Mercurio, chi era costui?, in “Il bene comune”, pp. 90-95, in <http://www.toro.molise.it/public/news/foto/sanmercu.pdf> ultima lettura 15 gennaio 2019). 
 
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Ospedale di Piazza/1^ Sede - 1° Nome

 
Via Roma

Nel 1142 all'altezza della chiesa di Santa Barbara, nell'odierna via Roma, prima chiamata strada di fundachi e poi ferreria, il conte Simone Aleramico si riserva un'area che destina a ospizi e ostelli, idonei a curare i cittadini lombardi e ad assistere i viandanti e i pellegrini. L'ospedale, situato in diverse abitazioni, è retto da frati appartenenti all'Ordine di San Giacomo d'Altopascio, tra i quali esiste una prevalenza di elementi ospedalieri su quelli militari. I frati Ospedalieri provengono dalla loro Commenda/Ospizio/Ospedale dedicato a San Giacomo, alle porte a Nord dell'odierno abitato e fondato nei primi anni del 1100, al seguito di Enrico Aleramico signore di Paternò e Butera e padre di Simone. Nel 1390 l'ospizio-ospedale (Domus Hospitalis, lo consideriamo il I nome) è occupato dalle truppe di re Martino il Giovane che ne fanno il loro quartier generale, mandandolo in crisi.

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Il fantastico negozio

Il signor Valentino Alessandro al centro della foto

Finalmente è arrivata la foto del famoso negozio di giocattoli e altro, del Sig. Valentino Alessandro. Il negozio "Valentino magazzino per tutti" si trovava in piazza Garibaldi ai numeri 19 e 20. Erano almeno cinquant'anni che non vedevo l'interno del negozio, purtroppo in bianco e nero, ma i miei ricordi sono a colori. Non mi sbagliavo a ricordarmelo pieno di articoli di ogni genere e anche di profumi (in basso a dx se ne vedono alcune bottigliette). Ma quelli che rimanevano impressi erano i giocattoli, lì a portata di mano, ma non di portafogli. In questo periodo di carnevale si vendevano, oltre ai coriandoli e alle stelle filanti, vari tipi di scherzi: la polvere che faceva starnutire, l'altra gratta-gratta, l'anello e il naso-baffi-occhiali con le pompette d'acqua, il cuscino rumoroso che provocava scorregge sotto l'ascella, i flaconi di borotalco per spruzzarlo addosso ai compagni e, per i più temerari, le fialette puzzolenti, con la tipica orrenda puzza di uova marce!

Gaetano Masuzzo/cronarmerina

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Carnevale con l'HULA HOOP

Questa mattina, un visitatore mi ha ricordato che "Valentino magazzino per tutti", per carnevale negli anni '60, organizzava in piazza Garibaldi delle serate danzanti. Durante una di queste, fece svolgere una gara di HULA HOOP, difondendo musica a più non posso dal suo fantastico negozio. Il visitatore anonimo, senz'altro mio coetaneo, ha concluso con questi aggettivi: bellissimo, fantastico e indimenticabile!

Gaetano Masuzzo/cronarmerina.it

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Simbolo del Fascio a Piazza

Fascio scolpito su una famosa scalinata di Piazza



Il Fascio Littorio nell’antica Roma era un simbolo del potere, dell’autorità giudiziaria e dell’unità del popolo, ereditato dal popolo degli Etruschi (era usanza degli Etruschi che il re di ogni città camminasse preceduto da un littore recante un fascio di verghe e una scure). Consisteva in un’ascia avvolta in un fascio di verghe di betulla bianca, legate insieme da nastri di cuoio. I “littori” erano i funzionari al servizio dei magistrati che all’inizio si limitavano a scortarli, per difenderli appunto con le verghe, successivamente il loro compito si estese all'esecuzione delle pene corporali con le verghe e alle decapitazioni con l’ascia. In età regia si ponevano davanti al Re in numero di dodici, in età repubblicana scortavano i magistrati maggiori in numero corrispondente al rango. Solo il dittatore poteva portare le asce dentro la Roma sacra, in quanto all’interno della città non poteva applicarsi la pena di morte ai cittadini romani. Il simbolo venne poi adottato dal fascismo italiano che proprio da esso prese il nome. Dall'antica Roma il fascismo prese anche l’appellativo duce (capo militare) e il saluto romano che si faceva alzando il braccio. Anche Piazza durante il ventennio fascista, era piena di scritte e di fasci, che furono eliminati immediatamente dopo la fine del secondo conflitto mondiale nel 1945. Per esempio la firma "MUSSOLINI" fu tolta dalla frase "Combattere e se occorre morire. E' il sangue che dà..." sul monumento al Generale Cascino. La frase faceva parte del discorso che l'allora socialista-interventista Mussolini tenne a Parma nel 1914. Ma non tutto venne cancellato. Il fascio scolpito della foto in alto ne è la prova e se vi dico dove si trova, non ci credete! Si trova in cima alla scalinata della chiesa di S. Pietro: aguzzate la vista!
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Dislocazione Porte della Città

La pianta della Città di Platia nel 1689
Le frecce rosse indicano le 7 porte della Città su una pianta del 1689. Le piante, disegnate in occasione dell'apertura dell'Università di Studia Superiora¹ nel Collegio dei Gesuiti, in realtà furono due, una (quella nella foto) dedicata e donata al catanese dottore Cristoforo d'Amico, giudice del tribunale e vicario generale nei Valli di Dèmone e Noto, l'altra al piazzese Mario Trigona barone di Azzolina, Gallizzi e Mandrascate nonché governatore del Monte di Pietà. Come si può notare dalle disposizioni, alcune porte esistenti secoli prima risultano al centro dell'abitato sul finire del XVII secolo. Ciò è dovuto all'espansione della Città verso Est e verso Sud che c'era stata in più di due secoli. Infatti, le porte che prima erano sul limite esterno delle mura come la porta n. 2, quella della Scattiola, ora si trova quasi al centro della pianta, e la n. 4, quella dell'Ospedale, la troviamo più spostata verso la Taccùra, quando prima, almeno due secoli, era spostata verso Piazza Maggiore, indicata col numerino 42. Un'altra cosa che salta agli occhi attenti è la presenza di un'altra porta, la n.7, tra la Catalana n. 5 e quella di San Martino n. 6 di cui non conosciamo nè il nome e nè l'ubicazione esatta. Potrebbe essere stata quella murata, di cui si intravede oggi solo il formato, proprio sotto la scalinata per la quale si va in via Vallone di Riso. A questa porta ci si arriva dopo 150 metri da quella Catalana, provenendo dalla via Stradonello e poi dalla via Costa Vallone di Riso. Girato l'angolo ci si immette nella via Campagna San Martino, ma a pochi metri dall'angolo si vede già il disegno della Porta e, subito dopo, la scalinata di via Vallone di Riso. 
I numerini rossi indicano: n. 1 Porta della Castellina; n. 2 Porta della Scattiola; n. 3 Porta di S. Giovanni Battista; n. 4 Porta dell'Ospedale; n. 5 Porta dei Catalani; n. 6 Porta di S. Martino; n. 7 Porta Vallone di Riso.
 
¹ L'Università degli Studi oltre a essere chiamata Università di Studia Superiora era chiamata Seminario Generale di Teologia o Collegio e Università degli Studi di Piazza P. Antonino Chiarandà.
Gaetano Masuzzo/cronarmerina.it
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Famiglia Calascibetta

D'azzurro al leone d'oro tenente con la branca destra una spada d'argento al palo
 
La nobile e importante, soprattutto per la vita ecclesiastica, famiglia Calascibetta, a Piazza fa la prima apparizione nel 1362, con Giovanni Calascibetta capitano della Città. Nel 1500 Giovanni Andrea Calascibetta Landolina è barone della Scalisa e di Malocristianello e del Màrcato della Montagna, per aver sposato Panfilia Spinelli. Giovanni Andrea muore nel 1508 e la moglie Panfilia dona parte dei suoi feudi e 60 mila scudi per l'ampliamento della trecentesca Chiesa Madre di Santa Maria Maggiore, poi nel 1517 si fa monaca del monastero delle Benedettine di San Giovanni Evangelista. Nel 1520 Matteo è I barone di Cutomino, Geronimo è barone di Rafforusso e Francesco del Màrcato della Montagna. Nel 1560 ca. Margaretha è Francescana Terziaria e comparirà, nel giorno della sua morte 7 settembre, come Serva di Dio "Margherita da Piazza" sul volume "Leggendario Francescano" del 1721. Nel 1555 Francesco è giurato, 1573 Girolamo è barone di Rabugino. 1580 ca. Antonio è giurato e maestro notario del Sant'Uffizio. Nel 1598 Pietro, barone di Cutomino, è fidecommissario della Chiesa Madre, nel 1605 fonda il Ritiro di Donne  e, qualche anno dopo, la Congregazione di Santa Brigida, e, rimasto vedovo con sette figlie, ne avvia tre nel monastero di Sant'Agata e le altre quattro presso il Ritiro della Congregazione di Santa Brigida. Il barone nel 1615, fattosi sacerdote, entra nella Congregazione Francescana. Nel 1642 il Papa autorizzerà la mutazione del Ritiro in Monastero di Agostiniane di Sant'Anna. Nel 1622 il giurato Girolamo si interessa per il trasferimento a Platia dei Benedettini provenienti dal borgo di Fundrò. Nel 1639 Giuseppe è padre gesuita, 1642 Emanuele è il padre Teatino che scrive in spagnolo una "Vita di San Gaetano" e alla sua morte viene seppellito nella chiesa dei Teatini di Madrid dove fu preposito della Casa madrilena. 1646 Giuseppe è giurato, 1650 ca. Agostino è padre cappuccino, 1671 Antonino è preposito della Casa dei Teatini. Nel 1675 Matteo Calascibetta barone di Malpertuso e San Basilio, senza eredi, con atto testamentario, istituisce presso la chiesa di Santa Domenica, accanto a quella di San Martino, una Collegiata di canonici intitolata al SS. Crocifisso. Nel 1698 Cristoforo è benedettino nel convento di Benedettini di Santa Maria di Fundrò. 1707 Matteo è padre gesuita, 1757 Ignazio Maria è vicario generale del Vescovo di Catania. Di questa famiglia abbiamo diversi stemmi: 2 scolpiti su pietra, uno nel chiostro dei Gesuiti (oggi Biblioteca Comunale) tra i resti di quello che doveva essere un arco proveniente dalla chiesa abbattuta di Sant'Agata, e sopra ne abbiamo visto la relazione; l'altro, sull'arco d'ingresso a un cortile in via Cavour 9, sicuramente un'abitazione della famiglia. Inoltre, sempre tra i resti di cui sopra, c'è un grosso blocco di pietra col cognome della famiglia inciso molto chiaramente. Altri due stemmi li abbiamo, assieme a quello degli Starrabba, in un altorilievo e nel soffitto della chiesa di San Vincenzo Ferreri. Per finire, un altro lo abbiamo insieme a quello dei Trigona nel quadro di San Carlo Borromeo in Cattedrale e un altro assieme a quello dei Villanova nella facciata del Municipio.
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Pecunia non olet

Vi ricordate il mio post del 5 gennaio "Quando scappava..." dove parlavo dei "vespasiani" disseminati nella nostra Città. Ebbene dimenticavo di dirvi una notizia ripresa dal mensile "Focus STORIA". Vespasiano, imperatore di Roma tra il 69 e 79 d.C., è noto anche per aver imposto una tassa sull'urina raccolta dai privati. Questi ultimi, infatti, vi ricavavano l'ammoniaca che poi vendevano ai conciatori di pelli. Narra Svetonio che Tito, il figlio di Vespasiano, si lamentò col padre per la natura disgustosa della tassa lanciando alcune monete in uno degli urinatoi. L'Imperatore, dopo averle raccolte, le avrebbe annusate osservando che "pecunia non olet". La frase viene oggi usata per affermare che il valore del denaro non è intaccato dalle sue origini, quale che sia la sua provenienza più o meno lecita: politica docet.
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