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Cronarmerina - Novembre 2024

Il Re della lapide

Re Ferdinando I delle Due Sicilie (1751-1825)

Dopo aver parlato della lapide che ricordava la venuta di re Ferdinando I delle Due Sicilie a Piazza nel maggio del 1806, mi sembra giusto descrivere cosa accadde dopo. Nel 1814 Ferdinando, che sin da giovane fu chiamato Re Lazzarone¹, tornerà dal lungo esilio di otto anni in Sicilia e assisterà all’allontanamento a Vienna della moglie Maria Carolina, dietro pressioni inglesi perché accusata di complotto contro l’Inghilterra. Giunta a Vienna, Maria Carolina morirà nel settembre del 1814. Dopo due mesi il Re si risposerà con la duchessa siciliana, di Siracusa, Lucia Migliaccio (1770-1826) vedova del Principe di Partanna, e nel 1815, grazie al Congresso di Vienna, rientrerà in possesso del Regno di Napoli. Nel 1816 Ferdinando istituirà il Regno delle Due Sicilie diventando Ferdinando I delle Due Sicilie e, nel 1820, dietro le pressioni dei fermenti carbonari-antiborbonici e dei moti in Europa, sarà costretto a firmare la Costituzione che sarà ritirata subito dopo la repressione dei moti carbonari. Ferdinando morirà nel 1825 a 73 anni e sarà seppellito nella chiesa di Santa Chiara a Napoli, sepolcro ufficiale dei Borbone delle Due Sicilie. Se questo Re Borbone è stato stenuo difensore dell’assolutismo monarchico, va ricordato il suo proficuo adoperarsi nel campo culturale: nel 1778 promuove la nascita della Real Colonia di San Leucio, esperimento di modello sociale per gli operai della seta a pochi chilometri dalla reggia di Caserta che divenne, in seguito, un polo di eccellenza della produzione tessile, nel 1787 inaugura la Reale Accademia Militare della Nunziatella, nel 1805 dà un forte impulso all’università di Palermo e qui fa costruire un osservatorio astronomico sul tetto del Palazzo Reale, riorganizza l’università di Napoli dando anche una decisiva spinta agli scavi di Ercolano, Pompei e alla costruzione della reggia di Caserta, opere avviate da suo padre, Carlo I re di Napoli e Sicilia e III re di Spagna (Madrid 1716-1758).

¹ <<Personaggio molto particolare, Re Ferdinando IV di Borbone, famoso per le sue “incursioni” nei quartieri popolari, travestito e irriconoscibile. Leggenda vuole che il Monarca si divertisse molto durante queste sue serate nei quartieri di Napoli. Il suo maggior sollazzo sarebbe stato quello di prendere in giro la gente che incrociava per strada, farla oggetto di sonore pernacchie. Una notte cominciò a menare per il naso un soldato di guardia, tanto che la stessa sentinella, fortemente risentita, gli puntò contro il fucile. Il Re si salvò grazie all'intervento del Principe Sannicandro che lo accompagnava: il nobiluomo ed educatore del Monarca avvertì urlando la guardia che si trovava di fronte all'irriconoscibile Sua Maestà. La risposta de soldato fu rapida e lapidaria: “Ma i re non fanno simili porcherie!”.
Re Ferdinando ebbe un rapporto di amore-odio con la Sicilia. L'Isola fu suo rifugio durante l'ondata napoleonica salvando la sua vita e l'ordinamento borbonico del Meridione. In quel periodo di esilio, Ferdinando continuò con il suo stile di vita, fatto di battute di caccia, sua grande passione, lunghe cavalcate. Un legame forte con la Sicilia lo suggellò grazie al matrimonio morganatico con Lucia Migliaccio, Duchessa di Floridia, vedova del Principe Benedetto Grifeo di Partanna. Re Ferdinando rimase in Sicilia dal 1798 al 1801 e dal 1806 al 1815. Durante una battuta di caccia nella Tenuta del Cappellaro, Sua Maestà si ritrova vicino a uno dei caratteristici ovili siculi, con recinti delimitati da bassi muretti in pietra e basse casupole per la lavorazione del latte che facevano anche da momentaneo riparo per i pastori. Il Re giunge nel momento in cui tre pastori stanno facendo la ricotta dal latte ricavato dalle pecore. Ferdinando ha fame dopo la prima fase mattutina della caccia, prende una pagnotta offerta dai tre poveruomini, la taglia, ne toglie la mollica e con la crosta restante ne ricava una specie di scodella dove versa la ricotta ancora calda. Rifiuta le posate porte con immediatezza dai suoi inservienti. In questo modo il Sovrano costringe, indirettamente, cavalieri e nobiluomini del suo seguito a mangiare nello stesso modo, con le mani (se lo fa il Re, gli altri non possono agire diversamente). Durante questo pasto Ferdinando decide improvvisamente di dimostrare la sua riconoscenza verso i pastori dicendo: “Cu' non mangia ccu so' cucchiaru, lassa tuttu 'o zammataru” ("Chi non mangia con il suo cucchiaio -con le posate- deve lasciare tutto allo zammataru, al pastore"). Nessuno aveva utilizzato le posate, quindi un patrimonio di forchette, coltelli e cucchiai in argento finirono nelle mani dei pastori, arricchitisi così in pochi minuti. Da sottolineare che il termine “zammataro” è quello che identificava il pastore che trasformava il latte in ricotta>>. (tratto da www.grifeo.it)

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La grande lapide del Palazzo Trigona

La grande lapide sul portone d'ingresso del Palazzo Trigona della Floresta

Tutti l’abbiamo guardata, vista, osservata, letta, ma pochi sanno di che cosa si tratta e cosa c’è scritto. Leggendo superficialmente la grande lapide nella foto, si riesce a intuire qualcosa, ma rimane solo un’intuizione. Ebbene, facendomi aiutare dall’amico Benedetto (in tutti i sensi) che ne sa più di me di latino, per non avere dei dubbi travisandone il significato, sono riuscito a chiarirmi le idee sulla lapide commemorativa più grande che esiste a Piazza, quella sul portone d’ingresso al Palazzo Trigona della Floresta, “prossimo” Museo della Città. Per contestualizzare la posa della lapide, bisogna fare qualche passo indietro e conoscere la situazione che portò il Sovrano Borbone, soprannominato benevolmente per l’educazione semplice e popolana Re Lazzarone dal suo tutore Domenico Cattaneo, a Piazza. Allo scoppiare della Rivoluzione Francese, nel 1789, non vi furono immediate ripercussioni a Napoli. Fu solo dopo la caduta della monarchia francese e la morte sulla ghigliottina dei reali di Francia, che la politica di re Ferdinando IV di Napoli e III di Sicilia (Napoli 1751-1825) e della sua consorte Maria Carolina d'Asburgo-Lorena (tra l'altro sorella della regina Maria Antonietta), cominciò ad avere un chiaro carattere antifrancese e antigiacobino. Nel 1792 il Regno di Napoli aderisce alla prima coalizione antifrancese e cominciano le prime azioni di guerra contro le truppe rivoluzionarie. Tra alterne vittorie e sconfitte, con relativi armistizi e dichiarazioni di pace, con o senza coinvolgimenti di eserciti stranieri “amici” (Austriaci-Russi-Inglesi) il Re nel 1799 è costretto a fuggire a Palermo (I volta) lasciando a difesa di Napoli i lazzari a lui devoti e che pagano con 3.000 morti l’inutile devozione, cosicché i Francesi riescono a fondare la Repubblica Napoletana. Dopo circa tre anni (nel 1802) grazie alla pace di Amiens, il Re torna a Napoli dichiarando la Repubblica decaduta, giustiziando e mandando all’ergastolo o in esilio moltissimi che avevano appoggiato i Francesi. Dopo cinque anni, nel 1805, allo scoppio delle ostilità tra l’Austria e la Francia, Ferdinando firma un trattato di neutralità con quest’ultima, però pochi giorni dopo si allea con l’Austria nella “Terza Coalizione” antifrancese. A questo punto la Francia nel febbraio del 1806 invade il Regno di Napoli, dichiarando decaduta la dinastia borbonica, ma in gennaio il Re ha già lasciato Napoli, per tornare a Palermo per la seconda volta. Questo è l’avvenimento che ci interessa a proposito della lapide piazzese. Il Re a Palermo «decise di percorrere l’Isola per conoscere città e paesi, per sentire dal vivo le esigenze delle popolazioni, per riconquistare soprattutto quella stima e quella fiducia che aveva perduto nel 1802 con un atto di sovrana arroganza. A Piazza vi giunse il 1° maggio 1806 accolto con grande esultanza dal Senato Cittadino […], dal Capitano di Giustizia, dai Giudici, dal Secreto, dal Comandante della Legione, dal Vicario Generale, dal Clero, nonché da una moltitudine di popolo giunta dai paesi della Comarca. Prese dimora a palazzo Trigona della Floresta, partecipò ai festeggiamenti della Santa Patrona del 2 e 3 maggio, con unanime commozione dei piazzesi, ripartiì la mattina del 4 maggio. Nei tre giorni di permanenza in città comunicò ai Senatori la notizia ch’Egli aveva inoltrato con parere favorevole a papa Pio VII la richiesta di erezione della nostra città a sede vescovile, confermò ai piazzesi gli antichi privilegi ed in particolare quello dei Tre Giudici o della Corte Criminale e Civile»². Ed eccovi la traduzione della lapide posta a ricordo della visita reale:
______________

A FERDINANDO III RE DI SICILIA CLEMENTISSIMO
CHE GIUNGENDO A PIAZZA
ONORÒ, GLORIFICÒ E ADORNÒ CON LA SUA PRESENZA
QUESTA CASA E QUESTA FAMIGLIA
E INOLTRE PREMIÒ
QUESTA CITTÀ
CON L’ONORE DELLA PIÙ ALTA CARICA DELLO STATO  

ALOISIO MARIA TRIGONA ARDOINO MARCHESE DELLA FLORESTA E SAN CONO¹
ILLUSTRE CAVALIERE DELL’ORDINE GEROSOLIMITANO
IN PERPETUO RICORDO DELLA MEMORIA POSE
GIORNO 1 MAGGIO 1806
______________

¹ Luigi Maria Trigona Ardoino, nato nel 1764 dal matrimonio tra Ottavio Maria Trigona Bellotti (fondatore di San Cono) e Girolama Ardoino Celestre, era II marchese della Floresta e XI barone di San Cono Scitibillini e Sant'Antonino. Si sposò nel 1789 con Marianna Beneventano La Rocca di Scicli e morì nel 1829. Il figlio di questi, Ottavio Concetto Trigona (m. 1850) e la moglie Raimonda Trigona Pilo di Mandrascate, nel 1837 ospiteranno sempre nel loro Palazzo della Floresta, il nipote di Ferdinando I, Ferdinando II delle Due Sicilie e la madre Maria Isabella di Spagna.

² Litterio Villari, Storia della Città di Piazza Armerina, Piacenza 1981, pp. 450, 451.

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Stemma Paternò-Castello ad Aidone

Chiesa di San Giovanni Evangelista, Aidone

Stemma Famiglia Paternò Castello sul portone d'ingresso della chiesa

Stemma Famiglia Paternò Castello, Palazzo Biscari, Mirabella Imbaccari

Quando ho parlato della chiesa di San Giovanni Evangelista di Aidone, risalente ai primi decenni del XIII secolo, avevo descritto, nel limite del possibile, gli stemmi che esistono sul portone d'ingresso alla chiesa. Anche se ridotti male perché logorati dal tempo, ero riuscito a individuarne due dei quattro. Uno dei due è quello posto sulla chiave di volta del portale, ovvero la croce bianca a otto punte su campo rosso dei Cavalieri di San Giovanni Battista di Gerusalemme, adottato da quando i Cavalieri si stabilirono sull'isola di Malta nel 1530; l'altro è il primo a sx, molto somigliante a quello della famiglia Crescimanno di Piazza. Quelli che ritenevo indecifrabili erano il primo da dx, inquartato: nel 1° e nel 4° di rosso alla croce d'argento, nel 2° e nel 3° d'azzurro all'aquila spiegata d'oro, probabile stemma di un Gran Maestro dell'Ordine gerosolimitano; e quello al centro, che guardandolo non attentamente, mi aveva suggerito di non azzardare supposizioni. Invece, l'altro giorno, durante l'ennesima passeggiata istruttiva per le strade della cittadina che ha tante peculiarità in comune con Piazza, mi sono dovuto ricredere. A quell'ora il sole battendo su di esso mi ha "illuminato", mostrandomi un chiaro esempio di stemma della famiglia Paternò Castello, una delle più nobili e antiche di Sicilia. Quella dei Paternò, dicendente dalla Casa Sovrana dei Conti di Barcellona e Provenza e da quella Sovrana degli Altavilla, aveva come capostipite Roberto d'Embrun (1050-1085 ca.) pronipote di Toda di Provenza contessa di Embrun e di Bernardo Tagliaferro conte di Besalù. Egli, sceso in Sicilia intorno al 1070 al seguito del Gran Conte Ruggero, si distinse per tale coraggio nella conquista della cittadina di Paternò che ne ottenne la signoria feudale e il nome. Roberto fu inoltre insignito dal Gran Conte dei feudi di Aylbacar e di Buccheri assumendo un'importanza tale che il suo stemma "Barcellona", di rosso a quattro pali d'oro attraversato da una banda d'azzurro divenuto anche quello dei Paternò (quello nella metà di sx delle foto in mezzo e in basso), fu posto accanto a quello del Gran Conte Ruggero e a quello della Città di Catania sull'architrave del Duomo di Catania. Nel XVII secolo la linea dei Paternò diventa Paternò-Castello per il matrimonio nel 1553 tra Don Angelo Francesco Paternò IV barone di Aragona etc. e Francesca Castello dei baroni di Biscari (ex casale saraceno Odogrillo, oggi Acate - Rg, in possesso di Gugliemo Raimondo de Castellis poi solo Castellis e infine Castello dal 1478). Infatti, è il primogenito di Don Angelo Francesco e di Francesca Castello, Don Orazio Paternò (+1614) ad aggiungere, per la prima volta al suo, il cognome della madre, Castello, divenendo Orazio Paternò Castello V barone di Aragona etc. e I barone di Biscari. Nel 1633 il figlio di Orazio, Agatino, diventa il I principe di Biscari col diritto di mero e misto imperio. Lo stemma dei Castello era d'azzurro al castello di tre torri d'oro, come quello nella metà di dx delle foto in mezzo e in basso. Ora, in quella che considero l'enciclopedia ecclesiastica piazzese, Storia Ecclesiastica della città di Piazza Armerina, 1988, del grande storico gen.le Litterio Villari, tra Le ultime notizie sulla Commenda di San Giovanni Battista di Piazza a pp. 178 e 179, troviamo come commendatori siciliani: «Seguì intorno al 1740 frà Michele Paternò dei baroni di Raddusa e di Destra. Questi, nato a Catania nel 1706 da Vincenzo Paternò-Trigona e da Anna Bonajuto-Paternò, aveva la nonna piazzese - Silvia Trigona Marchiafava di Spitalotto - e quindi contava a Piazza molti parenti fra i Trigona e gli Starrabba. Ammesso nell'Ordine quale cavaliere novizio [...], giovanissimo ottenne la recevittoria di Augusta e quindi la commenda di Piazza. Qui giunto, diede inizio a grossi lavori di abbellimento della chiesa; [...] curò l'incisione di lapidi-ricordo, su una delle quali è scritta la data (a. 1764). [...] Ultimo commendatore fu frà Francesco Paternò-Castello, ricevuto nella religione nel 1749. Occupò la carica di Ammiraglio e di Piliere d'Italia dal 2 dic. 1779 al 28 nov. 1780, oltreché godette le rendite delle commende di S. Maria del Tempio di Caltagirone, di S. Giovanni di Barletta e del S. Sepolcro di Brindisi». Alla luce di questa premessa, che dimostra lo stetto rapporto tra le Commende dei due centri abitati e la famiglia Paternò, mi piace pensare che, tra le tante cose che legano queste due cittadine, si possa aggiungere anche quest'altro tassello araldico-gerosolimitano legato a un componente dell'illustre famiglia Paternò-Castello, Cavaliere e Commendatore titolare alla fine del Settecento sia della Commenda di San Giovanni Battista di Piazza sia di quella di San Giovanni Evangelista di Aidone.

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Edicola n. 58

L'Edicola Votiva n. 58 è quella che si trova in via Iaci. È una via poco conosciuta se non da chi risiede da quelle parti, pur essendo a un passo dal piano Demani (ex largo Gaffore barone del Toscano) e dalla via Cavour, zona una volta conosciuta col nome d' Sànta R'sulìa, cuore palpitante della Ciàzza sino agli anni Settanta. Poi, con l'espansione verso est, il mercato ortofrutticolo e alimentare subì un crollo che decretò l'eliminazione di tutte gli esercizi commerciali che esistevano fuori e dentro i locali dell'ex Centrale Elettrica a nafta, ex Palestra Ginnica, ex Chiesa e Convento Carmelitano di Santa Rosalia, sorto nella prima metà del Seicento. Noi di una certa età ricordiamo con un pizzico di nostalgia il nostro "Centro Commerciale" all'aperto con l'immensa (era l'impressione che dava a noi piccoli) pescheria dove  s'incartavano sàrdi, m'rrùzzu e gammarèddu nei grandi còppi di cartapaglia gialla. Ritornando alla nostra Edicola, possiamo dire che è tenuta bene con una grata in ferro che custodisce la Sacra Famiglia in gesso. La via è intitolata alla famiglia che abitava nei pressi, quella degli Iaci o Jaci baroni dei feudi Magnini e Feudonuovo e, nel 1641, anche del Casalotto. Questa nobile famiglia abitò anche nel palazzo da Calata û Collegiu, come ci ricorda il grande stemma sul portone del palazzo costruito da uno dei pochissimi duchi di Piazza, Desiderio Sanfilippo duca di Grotte. Della famiglia Jaci c'è lo stemma anche nella chiesa del Carmine.

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Il notaio Remigio Roccella/2

Vocabolario della Lingua Parlata in Piazza Armerina, 1875

Il notaio Remigio ROCCELLA parte 2^
Nel 1872 assume la gratuita direzione del Monte Prestami e per la saggezza delle disposizioni e la cortesia si attira l'ammirazione dei concittadini e degli indigenti. Più volte consigliere comunale e provinciale, nel 1876 sino al 1879 occupa la carica di Sindaco e domenica 4 giugno 1876, durante la Festa nazionale per l’Unità d’Italia e lo Statuto del Regno1, inaugura al pubblico la Biblioteca Comunale al piano terra dell’ex Collegio dei Gesuiti2 e nel 1878 l'Asilo Infantile, sotto la presidenza di suo fratello Alceste. Dopo aver perso nel fiore degli anni la cugina consorte Enrichetta Cammarata3, nel 1873 perde anche il figlio primogenito Rosario sedicenne che, nel liceo di Catania, aveva dato prova di rara intelligenza e di vasto sapere e, come se non bastasse, nel 1877 perde anche la figlia quindicenne. Queste disavventure familiari non gli impediscono di pubblicare:
-nel 1872 le Poesie in lingua vernacola Piazzese, Tip. Rosario Orlando, PIAZZA ARMERINA4 che furono in parte riprodotte da Lionardo Vigo e commentati nella raccolta dei canti popolari siciliani.
-nel 1875 coi tipi del caltagironese A. Giustiniani pubblica un trattato per uso del popolo L'esempio ed i suoi effetti4 che dal professore Laguzzi d'Alessandria fu giudicato come una splendida vittoria sull'ozio, sull'inerzia, sull'infingardaggine e sul delitto. Questo trattato, plaudito dall’esposizione palermitana del 1875, dai giornali letterari e da varie accademie, è fondato sull'assioma del redentore Exemplum dedi vobis.
-nello stesso anno (1875), con la tipografia del caltagironese B. Mantelli, stampa il Vocabolario della lingua parlata in Piazza Armerina (nella foto)5 dizionario sul gergo piazzese con la corrispondente grammatica e ortografia e una dotta prefazione confermante la storia di Piazza per merito degli studi filologici. Esso fu il primo a far osservare la somiglianza di questo gergo col dialetto lombardo e col piemontese e a raccogliere tutti i vocaboli della lingua parlata dal popolo piazzese dandone la pronunzia e il significato.
-nel 1877 con i tipi dello stesso B. Mantelli di Caltagirone e con quelli di Di Bartolomeo, sempre di Caltagirone, la raccolta Poesie e prose nella lingua parlata Piazzese4 in vernacolo (è scritto "vernaccolo") piazzese che la spontaneità del verso, la viva immaginazione e la moralità che vi campeggia gli hanno fatto meritare il soprannome del Meli piazzese. Bellissime sopra tutte sono: “Il giorno dei morti”, “L'eccellenza” e “L'orciolo”, le quali sono state tradotte in lingua italiana dai cultori italiani. Intrattiene rapporti culturali con grandi studiosi sciliani come Lionardo Vigo e Giuseppe Pitrè e dà le basi allo studio scientifico del gallo-italico.
A questo punto, la biografia che Alceste Roccella fa del fratello Remigio, si conclude con queste parole “Per tanti meriti fu decorato con la croce di cavaliere della corona d'Italia e, attendonsi da lui altri lavori, qual prodotto del suo fertile ingegno; infatti, nel 18966, pubblicava altre poesie che vennero generalmente plaudite”. Il notaio Remigio muore il 30 gennaio del 1916 nella sua abitazione di via Mazzini. Nel dicembre del 2000 la città di Piazza Armerina tramite l'Assessorato ai Beni Culturali gli intitola, assieme al fratello Alceste, la Biblioteca Comunale sita al piano terra dell'ex Collegio dei Gesuiti. Inoltre, al notaio gli è stata intitolata la via che va da viale Generale Ciancio a piazza Caduti sul Lavoro.

La circolare che emanava il decreto era la "n. 39, Torino addì 6 maggio 1861" e indicava lo svolgimento della festa la prima domenica di giugno. Il decreto si riallacciava alla precedente legge n. 1187-1851 del Regno Sardo.
2 Anche se molti volumi rimangono ancora nel fabbricato di S. Domenico per mancanza di spazio.
3 Scritto anche "Errichetta Camarata".
4 Presente in Biblioteca Comunale.
5 Presente in Biblioteca Comunale in 2 copie.
6 L’anno era il 1894, quando il Cav. Remigio Roccella pubblicò il volume di 65 pagine (non presente in Bibliot. Com.le) Nuove Poesie in vernacolo piazzese, Tip. Fratelli Bologna La Bella, PIAZZA ARMERINA. Il Vocabolario della lingua parlata in Piazza Armerina, Forni Editore, BOLOGNA (in Bibliot. Com.le) è stato ristampato in versione anastatica nel 1970.

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Il notaio Remigio Roccella/1

Il notaio Remigio Roccella (1829-1916)

Il notaio Remigio ROCCELLA parte 1^
Come avevo accennato nell’introduzione alla biografia dell’avv. Alceste Roccella, avendo potuto consultare tre dei suoi importantissimi volumi, in specialmodo quello dedicato agli “Uomini e Donne Illustri di Piazza”, tra le tante biografie, e precisamente 349 di Uomini Illustri e 48 di Donne Illustri, mi sono imbattuto anche in quella del fratello Remigio, notaio, sindaco, poeta e padre della nostra lingua ciaccësa. Remigio Roccella, terzogenito1 di Rosario e Vincenza Cammarata, nasce il 7 maggio 1829, nella stessa via dov’era nato il fratello Alceste, la Strada Sotto il Collegio (oggi via Vittorio Emanuele II). Dopo aver frequentato il Regio Liceo di Piazza, erede dal 1826 della soppressa Regia Accademia degli Studi, si reca nel Collegio di Musica “del Buon Pastore” di Palermo2 per seguire la sua inclinazione e perfezionarsi nel suono del violino. Accortosi che quella professione non gli avrebbe dato un buon avvenire, studia da sé le leggi amministrative e, per concorso, ottiene un posto nella segreteria comunale piazzese. L'assiduità al lavoro, l'onesta condotta ed il retto giudizio gli procacciano la stima dei superiori che l'insediano nel posto di Cancelliere Archiviario e, nelle ore libere, insegna aritmetica, lingua italiana e calligrafia. Nel frattempo, apprende l'algebra, la geometria piana e solida e la trigonometria rettilinea e così nella sua città comincia ad acquistare opinione di vasto sapere. A vent'otto anni (1857) si dedica agli studi legali e due anni più tardi (1859), nell'Università di Catania, ottiene il diploma di Licenziato in Diritto. Nel febbraio del 1860 è posto sotto stretta sorveglianza dalla polizia borbonica assieme al fratello Alceste, al suocero Domenico Cammarata e ad altri 33 piazzesi. Nel maggio dell’anno successivo (1861) risulta Segretario del Comune3. (continua)

1 Dopo il primo, Giuseppe (n. 1825), e il secondo, Alceste (n. 1827).
2 Tra il 1895 e il 1915 intitolato a “Vincenzo Bellini”.
3 Quando la Giunta Comunale, in assenza di provvedimenti statali in materia di ordinamento scolastico, dava disposizioni di continuare le attività nel nostro Liceo. Ma, alla fine dell’anno, giunsero le disposizioni del Governo Nazionale che facevano perdere a Piazza il Liceo (unico nell’intera provincia di Caltanissetta) per ottenere in cambio un Regio Ginnasio e una Regia Scuola Tecnica Inferiore. Nel 1887 si rimediò in parte all’ingiustizia dando a Piazza Armerina la Regia Scuola Normale, poi Ist. Magistrale.

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Fontana Bivio Capodarso/n. 64

Siamo in territorio tra le province di Enna e Caltanissetta. Questa è la Fontana n. 64 a pochi metri del Bivio Capodarso. È molto semplice e si nota appena svoltando a sx per andare verso Pietraperzia, provenendo da Enna. Prima che mi mettessi a censire le fontane/abbeveratoi non l'avevo notata, anche perché spesso coperta da auto di pendolari in sosta e dall'immancabile trascuratezza che impera sulle nostre strade. Questo territorio anche se si trova molto distante dalla nostra città, faceva parte del feudo in possesso di un lontano concittadino, Vincenzo Crescimanno I barone di Capodarso e barone di Bubutello nei primi anni del Settecento. Ai più non dice alcunché, ma se dico Piano Barone o Ciàngh Baròngh qualcuno drizza le orecchie. Infatti, il largo che c'è tra la piazza Garibaldi e la discesa dell'Itria è stato intitolato proprio a questo famoso antenato. Grazie ad Alceste Roccella possiamo sapere che il barone era <<amico e precursore del Metastasio e costui ricevea dal Crescimanno i tema sui vari melodramma che scrisse. Poeta celebrato nella parte erotica e melodrammatica con rima leggiadra e scorrevole... i suoi carmi furono lodati dai poeti contemporanei e dal pontefice di cui il Capodarso godea immensa stima. Morendo nel 1752, i suoi manoscritti furono involati dal medico Arena di Aidone, suo intimo amico e confidente>>. Un'ultima cosa, il toponimo "Capodarso" probabilmente deriva dal colore "bruciato, arso, rosso" che hanno le colline a picco sulla valle solcata dal fiume Imera meridionale. Girando su internet ho trovato notizie interessanti sul Ponte Capodarso, una tra tante è che il primo ponte fu costruito nel 1553 per ordine di re Carlo V d'Asburgo, sì proprio quello che diede a Plaza, come veniva chiamata la nostra città allora, il titolo di Civitas Opulentissima (Città Ricchissima) nel 1516. Dopo cinque secoli mi sembra di non meritarcelo proprio questo titolo reale.  

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Le vie di Piazza/U-V-Z

Piazza Umberto I

Dal 20 ottobre 2016 ho iniziato ad elencare tutte le strade di Piazza Armerina, con scritto accanto da dove iniziano sin dove arrivano, per meglio localizzarle. Lo scopo principale è quello di far conoscere ai Piazzesi e non il nome sia delle strade conosciute, sia delle tante sconosciute ai più e con nomi particolari. Ogni post elencherà le vie in ordine alfabetico e, per quanto è possibile, è stato messo a chi è stata intitolata. Si accettano segnalazioni di eventuali vie sfuggite nella compilazione.

U

Scalinata UDIENZA, (chiesa) da via Roma a via Udienza
Via UDIENZA, (chiesa) da via Roma a vico Udienza
P.zza UMBERTO I, (Re d'Italia) da via Garibaldi, a largo Ritiro, a via Teatro e a s.ta S. Stefano
Via UMBERTO I, (Re d'Italia) da p.zza Garibaldi a Largo S. Giovanni Ev.
Via UNGARETTI, (Giuseppe, poeta) da via Mons. Alessi a c.da Costantino
Via URZÌ ANGELO, (pittore) prolungamento di via G. Amendola

V

S.ta VALLETTA, da via Mancuso a via Ferro
Via VALLONE DI RISO, da via Tudisco a via Costa Vallone di Riso
Via VELARDITA, (famiglia) da p.zza Castello a via A. Crescimanno
C.le VENEZIA, nella via Cannizzo
Piano VENERELLA, da vico Cancarè a via S. Filippo
Via VERGA GIOVANNI, (scrittore) da piano Sant'Ippolito a piano Canali
Via VERSO ANTONIO, (il, madrigalista e storico XVI sec.) da p.zza G. Crea a A. Baiolo
Via VESCOVADO, da p.zza Duomo a c.le Taormina
Via VIGNAZZA, da via C. Giarrizzo a via Pocorobba
P.le VILLARI LITERIO, (generale e storico) ex piano Duilio, da s.ta S. Stefano a via Emma
Via VILLARI TENENTE, (Letterio, croce di guerra al V.M.) da via F. Guccio a p.zza Giorgio B. Giuliano
Via VILLAROSA, da vico Torrione a c.da Rocca C.
Via VINCENTI, da via Cannizzo a vico Scalo
Vico VINCIFORI, (Ignazio, benefattore) da via Castellina a via Cappella S. Giuseppe
C.le VIRDI, (famiglia) nella via Cappella S. Giuseppe
Via VITTORIO EMANUELE II, (Re d'Italia) da p.zza G. Garibaldi a p.zza Castello
Via VITTORIO VENETO, (comune dell'omonima battaglia 1^ G.M.) da via Trapani a via Caltanissetta

Z

Vico ZAFFIRO, (famiglia) da piano Canali a c.da Doniamare
Vico ZAMBRANO, (famiglia) da via Umberto I a via Genova
C.le ZITELLI, (famiglia) nella via Garibaldi

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Altro aidonese in un quadro in Biblioteca

Ritratto Giuseppe RANFALDI, aut. ignoto, XIX sec., Bibliot. Com.le, Piazza Armerina

L'opera scritta di Giuseppe Ranfaldi, 1884

Nel post di qualche settimana fa, avevo parlato della presenza nella Sala della Mostra del Libro Antico, nella Biblioteca Comunale di Piazza Armerina, del ritratto di Rosario RANFALDI, dottore in legge, lettere e filosofia, poeta e storico nato nella vicina Aidone nel 1766 e morto nel 1833. Subito dopo la pubblicazione dell’articolo, il prof. Marco Incalcaterra aveva precisato che oltre a questo quadro ce n’erano altri tre che ritraevano membri della stessa famiglia, uno lo stesso storico Rosario, un altro, accanto e della stessa dimensione, un prelato della famiglia e uno molto più grande che ritraeva Giuseppe RANFALDI (nella foto¹). Dal volume del prof. Vincenzo FIORETTO, Le Stelle fulgide di Aidone dalle origini ai tempi moderni, PARUZZO Editore, CALTANISSETTA 2010, apprendiamo a p. 91 che <<Ranfaldi Giuseppe Andrea nacque ad Aidone il 4 febbraio del 1821. Da giovane fu mandato a studiare nel seminario di San Rocco, a Palermo, dove intraprese gli studi classici con grande profitto. Di lui fu scritto: “Giuseppe Andrea Ranfaldi nacque da genitori culti ed agiati… Alla scuola a niuno (era) secondo”. A Palermo rimase molti anni e quando ritornò in Aidone era già laureato in medicina. Poco tempo dopo andò a Napoli dove esercitò, con tanta stima, la professione medica. Essendosi ammalato di epilessia e di paresi al braccio destro, ritornò in Aidone dove aiutò i diseredati e gli ammalati, con i suoi beni e con la medicina. Egli era storico, poeta satirico, letterato e filosofo, ma, quando gli Aidonesi gli portarono monete, vasetti storici, pezzi di mosaici ed altri reperti archeologici, provenienti dalla contrada chiamata Serra d’Orlando, per saperne la provenienza ed il valore, egli incominciò a studiare archeologia, leggendo quello che era stato scritto sulla numismatica e sulla storia antica sicula, greca e romana… Da questo studio venne fuori il bel volume intitolato “Ricerche storico-critiche sulle cose di Sicilia antica, vertenti alla illustrazione di una diruta città sicula”. Quest’opera fu pubblicata nell’anno 1884, a spese del Comune (foto in basso²). Il Ranfaldi consacrò questa opera agli Aidonesi Gaetano Scovazzo, Filippo Cordova, Lorenzo Calcagno, glorie recenti. Egli scrisse anche molte memorie scientifiche per l’Accademia Gioenia di Catania, di cui era corrispondente. Ranfaldi Giuseppe Andrea morì ad Aidone, a 45 anni, il giorno 18 giugno 1866>>. Dallo scritto non appare alcuna relazione con Rosario RANFALDI, ma l’anno di nascita di Giuseppe (1821) non la esclude del tutto, anche perché si parla di “genitori culti ed agiati” che “fu mandato a studiare a Palermo… dove rimase molti anni” e Palermo fu la città “dove dimorò per molto tempo” anche Rosario Ranfaldi. Per quanto riguarda la presenza dei quadri di questa famiglia aidonese a Piazza Armerina, riporto quanto comunicato dal prof. Incalcaterra: <<In biblioteca ci sono quattro ritratti di Ranfaldi. Due sono della stessa persona di cui tu hai parlato, il terzo è per intero e ritrae Giuseppe Ranfaldi, il quarto è di un canonico Ranfaldi. Sono in biblioteca perché furono ceduti al Comune durante la sindacatura di Nigrelli da un privato che li possedeva in quanto trovati nella casa acquistata da eredi della famiglia Ranfaldi. Fui io stesso che feci sapere al sindaco Nigrelli di questi quadri e della volontà di alienarli. Io ho conosciuto personalmente alcuni dei Ranfaldi che stavano a Piazza in questo cugini in secondo grado di mia nonna materna. Uno degli ultimi diretti discendenti non vive più in Sicilia>>.   

¹ La foto non mostra la parte inferiore del quadro per risaltare maggiormente il ritratto molto scuro in ambiente con poca luce. Nella parte mancante del quadro che si presenta molto deteriorata, in basso a dx, sembra esserci un volume con delle parole, una di queste pare che sia "Ranfaldi".  

² La foto dell'opera scritta da Giuseppe Ranfaldi del 1884 è stata inserita nell'aprile del 2018, perché recuperata in un secondo momento dall'amico Pino Farina e da lui postata su facebook.

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Date corrette per suor Arcangela Tirdera

La IV cappella a destra, chiesa di San Pietro, Piazza Armerina


Nel dicembre del 2012 prima (sul blog) e nel marzo del 2016 (su questo sito) pubblicai i risultati della ricerca riguardante la piazzese Terziaria francescana Serva di Dio, suor Arcangela Tirdera, vissuta nella seconda parte del XVI secolo. Leggendo a malapena l’iscrizione sotto l’affresco in Pinacoteca Comunale, che raffigura suor Arcangela che regge tra le braccia un Bambino Gesù, consultando il Villari¹ e la Vita della Ven. Suor Arcangela Tardera – Terziaria Francescana² avevo dedotto che la data di nascita fosse 1598 (data della morte riportata sia dal Villari che dal Mazzara) meno l’età di 60 anni, come, erroneamente, avevo creduto di leggere tra le lettere dell’iscrizione sull’affresco «[…] SEXA […] APTA […] AN […] OS […]», e prendendo per esatta la data di nascita riportata dallo stesso Villari (1981, p. 390) e da altri Dizionari, che in realtà parlavano di un’altra omonima suora Terziaria, avevo ricavato come anno di nascita il 1548. Invece, alla luce dei nuovi documenti che ho potuto consultare in questi giorni, occorre posticipare al 1562 l’anno di nascita di suor Arcangela Tirdera e posticipare di 3 anni l’anno in cui prese l’abito di Terziaria, a 20 anni e non a 17. Infatti, ecco come ce ne parla l’avvocato Alceste ROCCELLA (1827-1908) in uno dei suoi volumi sulla Storia di Piazza, dove riporta notizie apprese dagli storici dei secoli precedenti come Antonio il Verso, Marco Ligambi, Rocco Pirri, Domenico Gravina e Arturo de Moustier del XVI sec., G. P. Chiarandà e Francesco Aprile del XVII sec. e Vito Amico del XVIII secolo: «Suor Arcangela Tirdera o Tardera naque nel 1562 da Pietro e Vincenza Altini. Fin da bambina, fu dai genitori avviata nei cristiani doveri e fanciulla ebbe a confessare fra Innocenzo Caldarera o da Chiusa che nel cenobio Santa Maria di Gesù splendea per santità e, volendo imitare le virtù del confessore, ventenne professò l'abito di terziaria francescana vivendo nella propria casa. Fra digiuni, orazioni ed aspre penitenze, cominciò a logorare il suo organismo, dormiva su poca paglia, nelle continue preghiere alla Vergine dicesi che costei la favorì di celesti visioni e, in una notte di Natale, le accordò abbracciare il bambino Gesù. Nel breve corso di sua vita fu sempre travagliata da penose infermità eppure sempre ilare ed assidua nella prece mostrossi, ottenne dall'Altissimo avere nelle mani e nei piedi l'impronta della piaghe di Gesù Cristo e Alegambe e Verso ne furono osservatori e ringraziò la Provvidenza esser partecipe al favore accordato al serafico Francesco d'Assisi, suo istitutore, onde Domenico Gravina nella “Vox Turturis” ne encomiò la perfezione e l'illibatezza della vita. Morì per consunzione a trentasei anni in fama di gran santità nell'otto febbraro 1598 e, dopo molti prodigi, fu inumata nella cappella ad austro3 della chiesa di San Pietro (nella foto). A rimeritare le virtù dell'Arcangela, quei padri effigiarono la di lei imagine nella parete della prima stanza che serviva d'ingresso nel cenobio, ponendovi sotto la seguente iscrizione: Soror Arcangela Tirdera a Platea / Virgo XXXVI annorum / Languore corrupta / Admirabilis extitit patrie / Et Christi passionis dolores / Languenti corpuscolo sentiebat / Anno 1598» (Alceste Roccella, Storia di Piazza dalla sua fondazione al 1878, 7 voll. mss. inediti, vol. Uomini Illustri, Biblioteca Comunale di Piazza Armerina, Piazza Armerina penultimo decennio sec. XIX, [pdf], p. 164).

¹ Litterio Villari, Storia ecclesiastica della città di Piazza Armerina, Soc. Messinese di Storia Patria, Messina 1988, p. 258.

² Benedetto Mazzara, OFMRif., Leggendario francescano, Tomi 12, Tomo II, Vite di Febrajo 8, Per Domenico Lovisa, Venezia 1721, pp. 128-143.

³ “ad austro” ovvero “a sud” della chiesa di San Pietro, oggi la IV a destra, a fianco dell’altare maggiore, originariamente antica chiesetta di San Pietro poi cappella famiglia Tirdera, famiglia Miccichè (con loro stemma sull’arco) e famiglia Cagno (cf. L. Villari, Storia ecclesiastica, cit., p. 250 nota 120bis).

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