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Cronarmerina - Aprile 2025

Passato e presente a Ciàzza

Carusétt anni Cinquanta

Oggi vi propongo una poesia scritta da un piazzese sino ad ora completamente sconosciuto nel contesto poetico gallo-italico ciaccës. Francesco MANTEO ci racconta come è cambiata a Piazza la vita sociale dopo quarant’anni, da quando era ragazzo nel 1957.  

PASSÀ E PR’SÉNT

Era l’ann cinquantassètt e jé era carusétt.
M’ truvàva o Ciàngh Marìngh cianà ‘nt’àrbu d’ pìngh.
Gghè na spéci d’ t’rràzza ch’ suvrasta tutt Ciàzza.

E s’tàit ‘n cav ‘na ràma m’ gudèva u panoràma.
Ciàzza avèa quàttr quartéri e assài gènt ntê cantunèri
e taliànn facciafrönt m’ paréa tucchè u Mönt.

S’ntèa vösg d’ giuv’nèddi ch’ fasgèvn’nu còm l’asgéddi.
S’ giuàva pi vanèddi  e ‘ngàgghi e chi ciappèddi,
ntê curtìcchi e ntê scalöi a fussètta chi buttöi.

Pöi ddumànn i ddampiöi cadèv’nu ntê dd‘nzöi...
A gènt s’ movèva ddènta e cu poch era cunténta.
Mùli e scècchi mènz a vìa ggh’era mènu battarìa.

Ggh’era a pözza du fumèr ch non fa ‘ntuss’cher:
s’ m’ntèva ntê cavàgni, p’ scalièlu ntê campàgni
e dda piànta dava frutti ch’ piàsgev’nu a tutti.

Quànn sunava Avamaria s’ pr’iàva mènz a vìa
e ntê càsi, o stìss oràri,
s’ d’sgèva u rusàri.

Cìni i crèsgi e u semenàriu tutti i giörni du lunàriu.
Òra su sempr vacànti, ggh’ r’stànu sö i santi.
S’ talìa a telev’siòngh, non s dìsg ciù n’oraziöngh.

S’ mangiàva pangh schìtt, però ggh’era ciù ‘p’tìtt.
Chi gaddìni ntê catöi, ovi fréschi a döi a döi.
Òra u béngh ch ggh’è ntê piàtti... non n’ vònu mànch i gàtti.

Cu travàggh d’ na giurnàda s’ fasgèva ‘na mangiàda.
Òra gghè cu sta a spàss e ch’ campa mènz u lùss.
Gènt chi càuzzi r’p’zzàdi ggh fasgèva tré annàdi.

Òra su cìni l’armàdi... föra mòda sènza usàdi.
S’ b’tàva ntê suffìtti, non ggh n’era càsi sfìtti.
Növ nt’ ‘na stanza còm sardi ntà nv'rnàda stav’nu càudi.

Òra n’ l’appartaménti gghè frèdd chi r’scaldaménti.
Ggh’era gént ciù sp’nz’ràta e cantàva a stràta stràta,
i ‘nnamuràdi a muciöngh s’ parràv’nu du f’n’ströngh,

e nu cörs da nuittàda s’ s’ntèva a s’r’nàda.
Òra fànu tréd’sg anni e vònu fè ciù di rànni.
S’ n’ngàvi u v’sgìngh, t’ mpr’stàva pangh e vìngh.

S’ non gghiù putìvi rènn, passàva o stìss, sènza offénn
e quànn purtàva i primi frùtti i fasgèva tastè a tutti.
S’ ggh’avìvi affl’ziöi, t’ truvava i soluziöi!

Òra gghè sèmpr ‘n’mìc ch t’uggia ‘nsìna u b’ddìcch.
S’ si ntô tàggh du vaddöngh, su prònti a dè ‘n mutöngh
e s’ìngh’nu i sciànchi s’ r’zzùddi ntê vaddànchi.

Òra s’ sta ntê palàzzi... cu iè iè s’ fa i so càzzi.
S’ s’ncòntra l’inquilìngh, non s’ scàngia u böngh mattìngh
e cu ggh’av u màu stè... pò murì e pò cr’pè!

Francesco Manteo, maggio 1995
(diplomando della 5^ Chimici anno 1967/68
all’I.T.I.S. di Piazza Armerina)

Traduzione
Era l’anno cinquantasette e io ero ragazzo.
Mi trovavo al Piano Marino salito su un albero di pino.
C’è una specie di terrazza che sovrasta tutto Piazza.

E seduto su un ramo mi godevo il panorama.
Piazza aveva quattro quartieri e assai gente nei cantoni
e guardando di fronte mi sembrava toccare il Monte.

Sentivo voci di giovinetti che facevano come gli uccelli.
Si giocava per i vicoli a prendersi e con le pietre piatte,
nei cortili e sui gradini a fossetta coi bottoni.

Poi  accendendo i lampioni cadevano nelle lenzuola…
La gente si muoveva lenta e con poco era contenta.
Muli e asini in mezzo alla via c’era meno rumore.

C’era la puzza del letame che non fa intossicare:
si metteva nei cesti, per spargerlo nelle campagne
e quella pianta dava frutti che piacevano a tutti.

Quando suonava l’Avemaria si pregava in mezzo alla via
e nelle case, allo stesso orario,
si diceva il rosario.

Pieni le chiese e il seminario tutti i giorni del calendario.
Ora sono sempre vuoti, vi rimangono solo i santi.  
Si guarda la televisione, non si dice più un’orazione.

Si mangiava pane semplice, però c’era più appetito.
Con le galline nei pianterreni, uova fresche a due a due.
Ora il bene che c’è nei piatti… non lo vogliono neanche i gatti.

Col lavoro di una giornata si faceva una mangiata.
Ora c’è chi è a spasso e chi vive in mezzo al lusso.
Gente coi calzoni rappezzati ci faceva tre annate.

Ora sono pieni gli armadi… fuori moda senza usati.
Si abitava nelle soffitte, non c’erano case sfitte.
Nove in una stanza come sarde in inverno stavano caldi.

Ora negli appartamenti c’è freddo coi riscaldamenti.
C’era gente più spensierata e cantava per le strade,
gli innamorati di nascosto si parlavano dai balconi,

e nel corso della nottata si sentiva la serenata.
Ora compiono tredici anni e vogliono fare i grandi.
Se chiedevi a un vicino, ti prestava pane e vino.

Se non glielo potevi rendere, era lo stesso, senza offesa
e quando portava i primi frutti li faceva assaggiare a tutti.
Se avevi dispiaceri, ti trovava la soluzione!

Ora c’è sempre un nemico che ti adocchia sino l’ombelico.
Se sei sull’orlo del vallone, sono pronti a darti una spinta
e si riempiono i fianchi se ruzzoli nel burrone.

Ora si sta nei palazzi… e chiunque pensa a se stesso.
Se s’incontra l’inquilino, non ci si scambia il buon mattino
e chi sta male… può morire e può crepare!

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Cavalieri di Santo Stefano

L'Ordine dei Cavalieri di Santo Stefano di Toscana fu istituito nel 1561 (la bolla pontificia è del 1562) da Cosimo de' Medici I Granduca di Toscana (1519-1574) in memoria della vittoria riportata contro Siena il 2 agosto del 1554, festa di S. Stefano papa e martire. Lo scopo era quello di combattere la pirateria turca nel Mediterraneo, specie nel mar Tirreno, dove Cosimo aveva da poco promosso il nuovo porto di Livorno. I Confratelli seguivano la Regola Benedettina e avevano i Granduchi di Toscana come Patroni e Maestri dell'Ordine. Il Quartier Generale dell'Ordine venne stabilito a Pisa e le sue galee collaboravano con quelle dei Cavalieri di Malta nel pattugliamento del Mediterraneo, partecipando nel 1571 con una forza di dodici galee alla decisiva Battaglia di Lèpanto. Nel 1587 l'Ordine assorbì i Cavalieri di San Giacomo d'Altopascio, continuando la lotta sul mare contro i pirati barbareschi con le ultime missioni compiute nel 1719. Alla fine del Settecento la riorganizzazione voluta dal granduca Pietro Leopoldo (1747-1792) eliminò la componente militaresca prediligendo quella della formazione della nuova classe dirigente. L'Ordine venne disciolto una prima volta nel 1809 con un Decreto di Napoleone, ma ripristinato nel 1817. Nel 1859 con l'unificazione della Toscana al Regno di Sardegna l'Ordine fu soppresso solo patrimonialmente, mentre religiosamente, dipendendo in "perpetuo" direttamente dal Papa, è a tutt'oggi pienamente operante.

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1874 La piazzese suor Angelica Marotta

Suor Angelica, al secolo Rachele Marotta (1874-1929)

Padre Angelico, al secolo Vincenzo Lipani (1842-1920)

Suor Angelica MAROTTA nacque a Piazza Armerina il 6 Settembre 1874 da Alfonso Marotta e Lucia Venturella e fu battezzata con il nome di Rachele. All'età di 10 anni si trasferì a Caltanissetta per essere una delle prime 12 ragazze accolte nell'Istituto Signore della Città fondato nel 1884 dal Francescano Cappuccino Padre Angelico, al secolo Vincenzo Lipani (CL 1842 – 1920)¹.
L'idea dell’Istituto era nata in P. Angelico a seguito di due eventi luttuosi che colpirono la città di Caltanissetta, la cui economia all'epoca era basata soprattutto sull'estrazione dello zolfo dalle numerose miniere della zona. La vita dei minatori era dura e poco remunerativa, le famiglie vivevano di stenti e spesso in condizioni di estrema povertà, tanto che, già a metà del XIX secolo, il Priore del  convento benedettino di S. Flavia, D. Giuseppe Benedetto Dusmet, si era molto prodigato per loro, arrivando persino a far costruire un intero quartiere, quello della Saccara (oggi Cozzarello), per togliere le favelas che proliferavano in città e per ospitare le famiglie che qui si trasferivano da altri paesi. A questo si aggiungevano frequentemente dei crolli nelle gallerie, che causavano numerose vittime lasciando tante famiglie prive dell'unico introito e costrette all'estrema indigenza. Furono proprio due tragedie minerarie, quella di Gessolungo nel 1881 e quella di Tumminelli nel 1882, rispettivamente con 65 e 41 vittime, a spingere P. Angelico alla fondazione di un'opera che potesse assistere coloro che più avrebbero pagato per quelle tragedie: le orfane dei minatori. Tre insegnanti terziarie con umiltà si recarono di casa in casa per chiedere, soprattutto ai più ricchi, un aiuto finanziario, che potesse servire alla realizzazione di una piccola casa per accogliere alcune orfanelle. Raccolsero 400 lire e con esse P. Angelico diede inizio, nel 1883, alla costruzione di pochi locali, su due piani, adiacenti la chiesetta del Signore della Città. Nel 1884 la struttura fu pronta e P. Angelico vi accolse le prime orfanelle affidandone l’istruzione oltre che alle prime tre terziarie anche ad altre due che, dopo il noviziato, divennero suore dando vita così alla Congregazione delle Suore Francescane del Signore. Anche Rachele Marotta appena diciassettenne si presentò a P. Angelico, insieme ad altre due compagne, per chiedere di essere ammessa nel cammino vocazionale per diventare suora. Però, non avendo il riconoscimento paterno, dovette attendere sino al 1898 per fare la professione nelle mani del Vescovo. Nel frattempo visse come suora assumendo il nome di suor Angelica da Piazza Armerina e si distinse, soprattutto, per la grande carità sia nei confronti delle orfanelle e delle ragazze accolte nell'Istituto, sia verso i bisognosi della città. Vendette l'oro regalatole dal padre per aiutare l'Istituto e appena sapeva di qualche sciagura o di qualche bisogno era la prima a soccorrere ed accorrere in aiuto. Lo stesso anno (1898) morì la prima Superiora della Congregazione, suor Veronica (al secolo Vincenza Melissa Guarneri o Guarnieri da Resuttano - CL) e nel 1899 suor Angelica fu nominata Superiora per dirigere l'Istituto con grande saggezza, pensando al bene sia delle suore che delle ragazze. Fu lei a ricevere nel 1920 il testamento del fondatore P. Angelico morente e a promettere, a nome di tutte le suore, che avrebbe percorso la via della santità. Durante gli anni del suo governo fu ingrandito l'Istituto con un'ampia zona ricreativa e furono aperte le prime due filiali a Sommatino (1924) e a Delia (1926). Dopo l'incidente del fulmine, caduto nel cortile dell’Istituto ove le orfanelle e altri bambini giocavano, che nel luglio del 1925 lasciò uccisi due bambini, la sua salute cominciò a declinare, fino a quando, sentendosi ormai stanca, chiese al Vescovo che il governo passasse a un’altra suora che l'aveva coadiuvata negli ultimi tempi. Il Vescovo accolse la sua richiesta ma Suor Angelica mantenne il titolo di Superiora dell'Istituto di Caltanissetta. Colpita da ictus, morì all'alba del 5 Luglio 1929. Si disse di lei: <<Era una madre per le suore, per le orfane, per i vicini e per tutti... Era bella, giovane, "sciacquata" e "tunna", era una madre per tutti>>.

¹ Nel 1997 la Congregazione delle Suore Francescane del Signore, tramite il Postulatore Generale Francescano, ha inoltrato al Vescovo di Caltanissetta la domanda per l’apertura della fase diocesana del Processo di canonizzazione. Nel 2001 il Vescovo ha chiuso il processo diocesano sulla vita e sulle virtù del Servo di Dio P. Angelico Lipani, consegnando gli esemplari autenticati delle testimonianze di 55 persone da presentare alla Congregazione per le Cause dei Santi a Roma. Quest’ultima nel 2008 ha dichiarato valido il Processo diocesano e, pertanto, l’iter di canonizzazione (per la Santità) è tuttora in corso.

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Edicola n. 37

Questa è l'Edicola Votiva n. 37 del mio censimento che io chiamerei Edicola Votiva Roccabianca. Più che di un'edicola, veramente si tratta di una lapide dove, dentro una bella cornice ovale c'è la scritta «VIVA LA MADRE DI DIO MARIA CONCETTA SENZA PECCATO ORIGINALE 1692»¹ scolpita su una lastra di pietra arenaria, tipica della nostra zona. Di forma rettangolare grande cm 60x70 ca., da qualche anno protetta da un tettuccio metallico è situata tra i numeri civici 33 e 35² a ca. tre metri di altezza sul muro di un vecchio palazzo, esattamente di fronte l'Edicola Votiva n. 36, lungo a stràta màstra (strada maestra) del quartiere più antico della città, il Monte. Il palazzo fa da angolo tra la via Monte e la piazza Gen.le Giunta, con ingresso principale al n. 2 di quest'ultima. Davanti il portone il cartello turistico indica "palazzo Roccabianca (sec. XVII)" di cui, a ricordarcelo com'era, sono rimasti soltanto i portali dell'ingresso principale, di alcuni vani a pianoterra e le belle mensole³, scolpite con figure umane, dei balconi posti al secondo piano e agli angoli dell'enorme fabbricato prospicenti la piazza, le vie Monte e Montalto. Dalle esigue fonti sappiamo che la costruzione del palazzo iniziò nei primi decenni del XVII secolo. Ammesso che la lapide sia stata sempre dove si trova oggi e non proveniente da altro sito, forse fu affissa dai proprietari dell'edificio, per ricordare ai posteri qualche grazia ricevuta e il particolare culto dei Piazzesi per la SS. Vergine. In quel periodo dei primi del Seicento a Piazza non vi erano titolari del feudo Roccabianca4, c'era però Trigona Ottavio (1600-1645) II barone di S. Cono e Budonetto dal quale sarebbe disceso, tramite la figlia Elisabetta sposa di Trigona Giovanni Maria I marchese di Dainammare, il pronipote Giuseppe Trigona La Restia barone di S. Cono e III marchese di Dainammare e Canicarao che, sposandosi all'inizio del Settecento con Isabella Vanni Assali marchesa di Roccabianca, sarebbe diventato nel 1720 anche marchese di Roccabianca. Da tenere presente che in via Brunaccini, traversa di via Monte, c'è un altro antico palazzo (forse del XVIII sec.) dei marchesi di Roccabianca che, restaurato di recente dai nuovi proprietari, è stato adibito a Hotel e B&B. 

¹ Il Villari nella sua opera Storia Ecclesiastica del 1988 a p. 228 ci conferma che si tratta del 1692 e non 1622, come potrebbe sembrare a una prima osservazione.

² Il Villari, sempre su Storia Ecclesiastica del 1988 a p. 228 ci indica i umeri civici 35 e 37.

³ A Piazza Armerina in gallo-italico la mensola o modanatura è chiamata "guzzöngh" da "guzzone". Altri termini sono: modiglione, beccadello, cagnolo. Quest'ultimo è un termine del dialetto veneziano usato dai muratori per indicare appunto le mensole, i beccadelli o beccatelli, i peducci, i piumacciuoli ovvero pezzi di travi affissi nella muraglia atti a sostenere altre travi e cornici (cfr. Giuseppe BOERIO, Dizionario del Dialetto Veneziano, Tip. A. Santini & Figlio, VENEZIA 1879, p. 84). Nel giugno del 2021 ho appreso che a Salemi (TP) le mensole vengono chiamate "attuni" che deriva da "attu" gatto, uno degli animali riprodotti nelle mensole dei balconi. Per lo stesso motivo anche a Racalmuto (AG) sono chiamate "gattuni".

4 Forse feudo nei pressi dell'odierna c.da Roccabianca a Marineo (30 Km ca. a sud di Palermo).

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1925 I Commercianti a Piazza/15

(dal Post 14)

Sull'Annuario Commerciale del 1925 ancora queste sottoelencate Ditte di Piazza Armerina

TABACCHI

CONTI

DI CARLO

LO JACONO

MANCUSO

MESSINA

RIZZO

SCROPPO


TAPPEZZERIE

UNIONE MECCANICA DEL LEGNO - Viale Costantino¹


TEGOLE

CONTI CONCETTO²

CONTI VINCENZO³

ZALFINO FRATELLI4


TESSUTI

CIRRONE CARMELO5

CIRRONE LUIGI5

CRISTIANO FRANCESCO6

DE FRANCISCI GAETANO

GRAZIANO RUGGERO7

MERCOLA GIACOMO

NOCERA RAFFAELE8

PELLICANI ROSARIO9

SAVARESE AIELLO GAET.8


TIPOGRAFIE

BOLOGNA STEFANO10

GIOVENCO eredi Pietro11

¹ La troviamo anche nell'AMMOBIGLIAMENTI COMPLETI.

² Anche nelle STOVIGLIE.

³ Lo troviamo anche tra i CEREALI e nella FRUTTA SECCA.

4 Doveva essere ZAFFIRO e li troviamo anche nei LATERIZI e nelle STOVIGLIE.

5 Erano fratelli, il negozio di Luigi, che era compare di battesimo di mio nonno Tatano Marino, era in via Umberto 40. Quello di Carmelo era in via Umberto 41/43.

6 Era originario di San Michele di Ganzaria e il negozio l'aveva in via Umberto 39.

7 Il negozio era in via Umberto 47, dove poi ci fu quello del signor Guardabasso.

8 Il suo negozio era in via Umberto 41/43 dove c'era stato quello del Sig. Savarese Aiello Gaetano. Successivamente Nocera si trasferì in via Roma 70 per aprire una piccola pellicceria.

9 Il cognome esatto è PELLICANO e il suo negozio si trovava in via Umberto 17. Fu il primo a Piazza a possedere un'auto "Balilla" nel 1937. In seguito il negozio venne gestito dal sig. Lo presti.

10 Forse la tipografia si trovava già in Largo Sant'Onofrio, nell'edifico del Monastero di Sant'Anna.

11 La tipografia si trovava in via Sant'Anna (notizia tratta da una pagina di giornale datato 1903).

(continua)

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Questo è

Amici e amori, gioie e dolori.

CÖSS È

U cör strazzuliàtu

U t’rréngh ch’ t’ mànca sötta i pè

A d'lusion ch’ t’ brùsgia l’arma

U scànt d’ cuntèggh i to’ s’nt’ménti

U ramàn’ch d’ non putérlu ciù guardè n’d'l’oggi

A vògghia d' p'gghierlu a buffàzzi

A s’prànza ch’a stàit sö ‘nbrùtt sonn

U d’sìu d’ brazzèrlu còm ‘na vòta

Cöss è u tra’d’mènt d’ n amìcu

Rosalba Termini, maggio 2016

Traduzione

QUESTO È

Il cuore ridotto a brandelli

Il terreno che ti manca sotto i piedi

La delusione che ti brucia l’anima

La paura di raccontargli i tuoi sentimenti

Il rammarico di non poterlo più guardare negli occhi

La voglia di prenderlo a ceffoni

La speranza che è stato solo un brutto sogno

Il desiderio di abbracciarlo come una volta

Questo è il tradimento di un amico

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Rimedi usati al fronte un secolo fa

Alla recente Mostra sulla Prima Guerra Mondiale presso il Circolo di Cultura di Piazza, tra i tanti oggetti che ho potuto osservare uno in particolar modo ha destato la mia curiosità. E' il barattolino in metallo tenuto in mano nella foto che, in un primo momento, mi era sembrato contenente una pomata o unguento per le piccole ferite o per dermatiti varie, invece per saperne di più ho dovuto fare la solita ricerca. Intanto il termine "BOLI" è il plurale di "bolo" ovvero qualcosa che ha a che vedere con la deglutizione. Si può trattare del bolo alimentare (masticazione di un boccone) oppure di un bolo medico, come in questo caso, ovvero una medicina impastata in una grossa pillola masticabile. Le altre due parole "con LICHENE" ci fanno sapere che la pillola masticabile contiene lichene (islandico) pianta della famiglia delle Parmeliaceae le cui propietà antimicrobiche, antisettiche e digestive degli acidi contenuti (usnico, cetratico e folico) risultano utili contro nausea, vomito, tosse, asma e mal di gola. Disturbi questi che non dovevano mancare ai soldati italiani "in gita" su per le vette alpine alla conquista della gloria perenne. Come si legge nella confezione e dallo stemma in alto, era l'ISTITUTO CHIMICO FARMACEUTICO MILITARE, fondato nel 1832 a Torino dall'allora Regno di Sardegna, che riforniva le truppe italiane coinvolte nella Grande Guerra. Il lichene ben conosciuto dalle popolazioni del Nord Europa ove viene utlizzato come alimento, cresce anche in Italia nelle zone montagnose dell'Appennino centrale. E' raccolto quando piove o di notte, messo a macerare nell'acqua per 24 ore per eliminare le sostanze amare e infine messo a essicare per poi macinarlo sino a diventare una farina. Concludo con una domanda: "Chissà quante ne ha viste e quante ne potrebbe raccontare questo "insignificante" barattolino?".

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A che servono gli incontri

Nella sala rossa con gli alunni della V chimici a.s. 2015/2016, 15 aprile 2016

A pranzo con i compagni di mezzo secolo fa

Dopo tanti anni che non ci si vede e non ci si frequenta, qual è il modo migliore per riannodare i fili, se non quello di una bella rimpatriata attorno a un tavolo dove ognuno è “costretto” dall’età, dall’emozione e dal vino,  a tirare fuori i propri ricordi, che poi sono di tutti?

P’ NAN FÈLI CIÙ SCAPPÈ

Nudd su putìva mag’nè d r’zzèv l’invìt
P’ n’incòntr inasp'ttàt accuscì béngh organ’zzàt
N’ cödda sàla tutta rrössa
Ddi càmsgi biànchi di studénti d’aguànn
S’ cunfönniv’nu cu biànch di cavègghi
D’ cöddi ch’ giuv’nétti gghiàv’na stàit na vòta
Sci, ma ciù d mènz sèculu ‘ndarrèra

A ved’li öra tutti ‘nsemu accuscì
Ungh o sciànch a l’autr
A niàuti föm’ni ch’i taliàv’mu
Pariv’nu na clàsse d carösi
Prònti pa rec’ta da fìngh d l’ann

Iéddi nan s’ pute’vnu véd o spècchiu
Ma era pròpriu na b’ddézza talièli
A frosonomìa d’ognùngh era d’vèrsa d l’autr
Ma l’emuzziöngh ch’ ggh fasgèa lucc’chè l’òggi
Era a stìssa p’ tutti

Quànn pöi s’ttàti ‘ntàvula
A l’otta d mangè e bév
Ognùngh cum’nzà a cunté da so vìta
Famìgghia travàggh fìgghi n’vétti
Còm d'sgèva a puisìa Sp’tànn l’incòntr
Allöra l’emozziöngh da matt’nàda
Nan gghià fès ciù a r’stè dìntra a l’oggi
E s’ sciògghì n’ ddàrmi
D cu parràva e d cu scuttàva

Er’nu ddàrmi d cuntèntizza p’rchì
Dòp mènz sèculu ch’ nan s’ v’dév’nu
Cösti beddi omi s’ssàntuttìni
Putè’vnu parrè fàcci a fàcci
Cu i végghi cumpàgni d scòla
E fu accuscì ch’ cönt dop cönt
S’ cum’nzà a r'cùsg cö fìu dî r’gòrdi
Ch’ p’ bona part di pr’sénti s’era sö l’ntà

Quànn l’urt’m giövu s’ssàntuttìnu
F’nì d’ cunté da so vìta
Tutti i pr’sénti e i föm’ni ‘nprima fìla
Capìnu ch’ dd fìu du r’gòrd
S’era r’cùsgiuit, o méggh,
S’era pròpriu ‘nturciuniè
Str’nzènn’li tutti l’ungh a l’autr
P’ nan fèli ciù scappè

Rosalba Termini, Aprile 2016

Traduzione

Per non farli più scappare

Nessuno se lo poteva immaginare di rivevere l'invito

Per un incontro inaspettato così ben organizzato

In quella sala tutta rossa

Quei camici bianchi degli studenti di quest'anno

Si confondevano col bianco dei capelli

Di quelli che giovinetti c'erano stati una volta

Sì, ma più di mezzo secolo fa

 

A vederli ora tutti insieme così

Uno a fianco all'altro

A noi donne che li guardavamo

Sembravano una classe di ragazzi

Pronti per la recita di fine d'anno

 

Loro non potevano vedersi allo specchio

Ma era proprio una bellezza guardarli

La fisionomia di ognuno era diversa dall'altro

Ma l'emozione che faceva loro luccicare gli occhi

Era la stessa per tutti

 

Quando poi seduti a tavola

Al momento di mangiare e bere

Ognuno cominciò a raccontare della sua vita

Famiglia lavoro figli nipoti

Come nella poesia Aspettando l'incontro

Allora l'emozione della mattinata

Non gliel'ha fatta più a rimanere dentro gli occhi

E si è sciolta in lacrime

Di chi parlava e di chi ascoltava.

 

Erano lacrime di contentezza perché

Dopo mezzo secolo che non si vedevano

Questi begli uomini sessantottini

Potevano parlare viso a viso

Coi vecchi compagni di scuola.

E fu così che racconto dopo racconto

Si cominciò a ricucire quel filo dei ricordi

Che per buona parte dei presenti si era solo allentato

 

Quando l'ultimo giovane sessantottino

Finì di raccontare della sua vita

Tutti i presenti e le donne in prima fila

Capirono che quel filo del ricordo

Si era ricucito, o meglio,

Si era proprio attorcigliato

Stringendoli tutti l'uno all'altro

Per non farli più scappare

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L’Epigrafe della Biblioteca di Piazza

Chiostro dei Gesuiti sede della Biblioteca Comunale

Ingresso ex Sala del Coro del Collegio dei Gesuiti

 L'epigrafe in marmo sulla porta dell'ex Sala del Coro

L’Epigrafe della Biblioteca di Piazza, un antico baluardo della cultura

Nei primi anni del XVII secolo a Piazza Armerina, allora Platia (in qualche documento, anche Platea), esistevano ben quattordici tra Monasteri, Conventi, Case Professe e Commende degli Ospedalieri maschili, e sette tra Monasteri, Conventi e Ritiri femminili. La popolazione della città era di oltre 16.000 abitanti (rivelo del 1593) e tra questi c’erano un marchese, quattro conti e trentotto baroni. Inoltre, 100 circa erano i sacerdoti, che officiavano nelle quasi cento chiese presenti nel territorio intra moenia ed extra moenia (93 erano le chiese presenti nella relazione “ad limina” del 1655). La conferma dell’alto prestigio della comunità piazzese di allora arrivò col titolo di Spettabile (1), concesso nel 1612 da re Filippo III d’Asburgo, ovviamente dietro il pagamento di 10.000 scudi dalla Giurazia(2). Dato che uno scudo di allora valeva all’incirca 72 € di oggi, per quell’enorme cifra il Re, insieme al titolo, concesse la possibilità di amministrare oltre la giustizia civile anche quella penale (mero e misto imperio) attraverso il Tribunale dei Tre Giudici. Da questo quadro di quattro secoli fa si deduce che la prosperità economica era prerogativa dei numerosi nobili, mentre ogni attività culturale era monopolio ecclesiastico e in particolare del monachesimo. Questa situazione consolidava sempre più la consuetudine dei monasteri e dei conventi di essere importanti centri di diffusione culturale, in cui il libro occupava un posto di primo piano. Infatti, “Nella Regola di San Benedetto era prescritto l'obbligo della lettura in vari momenti della vita del convento; il monaco aveva fra le mani il libro nel coro, al refettorio, nella cella, compagno fedele della giornata. Fin dai primi tempi della fondazione delle abbazie era prevista la presenza di una biblioteca. Era scritto: Claustrum sine armario sicut castrum sine armamentario (un monastero senza biblioteca è come una fortezza senza armeria). Collegato alla biblioteca era lo scriptorium, dove si svolgeva il lavoro di copiatura e di miniatura dei manoscritti da parte dei monaci amanuensi: con la loro attività di trascrizione dei codici, furono il più importante strumento di conservazione del patrimonio culturale della classicità.”(3)
I monasteri e i conventi di Platia non facevano eccezione e custodivano nelle loro biblioteche oltre alle centinaia di manoscritti e testi del ‘300, anche numerosi documenti stampati con la tecnologia dei caratteri mobili, chiamati incunaboli, della seconda metà del ‘400 (quattrocentine) e del ‘500 (cinquecentine). Le opere trattavano temi che spaziavano dalle scienze teologiche alla filosofia, al diritto, alla grammatica, alla medicina e alla storia.
Ovviamente queste case di religiosi erano esposte di continuo a incendi, saccheggi, o più semplicemente a furti che decimavano il patrimonio librario e, come se ciò non bastasse, l’umidità, i topi e, alcune volte, il dare alle fiamme il materiale contenuto nelle celle dei monaci, morti durante le soventi epidemie, riducevano in poltiglia o in cenere migliaia di preziosi volumi, alcuni addirittura pezzi unici.
Se per le calamità naturali c’era poco da fare, per quelle dovute all’incuria e alla negligenza dell’essere umano, oltre ai semplici avvisi scolpiti sopra gli ingressi(4), venivano escogitate misure di vario genere, sempre più perentorie, e una di queste erano le “bolle pontificie” o “bolle papali”. Queste erano delle comunicazioni ufficiali in forma scritta, emanate dalla Curia Romana col sigillo del Papa. Il sigillo era un pendente metallico (in latino bulle, il cui termine è poi passato a indicare l’intero documento = bolla) generalmente di piombo, ma in occasioni molto solenni d’oro, e veniva legato mediante cordicelle di canapa annodate praticando dei fori nei documenti(5). Questi essendo in pergamena non potevano essere esposti per molto tempo, pertanto venivano riportati in riassunto (compendium) scolpiti su delle lapidi di marmo, da murare in ben evidenza, nei luoghi per i quali era stata emanata la Bolla.
Una lapide su cui è scolpita l’epigrafe di una Bolla Papale, del genere sopra descritto, l’abbiamo a Piazza, alla Biblioteca Comunale (foto in alto) intitolata ai fratelli Alceste e Remigio Roccella(6). L’epigrafe in latino è murata nella cornice in pietra arenaria posta sulla porta dell’ex Sala del Coro del Collegio dei Gesuiti, in seguito anche Oratorio della Confraternita dei Nobili, e sormontata da quello che doveva essere lo stemma dell’Ordine dei Gesuiti, ormai completamente logoro (foto in mezzo). La lapide di marmo (foto in basso) che è situata a 4 metri d’altezza e misura cm. 55x110, prima di essere definitivamente murata durante gli ultimi restauri, era fissata soltanto da cinque rampini di ferro, ancora visibili, dal 1876, anno di nascita della biblioteca. La sistemazione a quell’altezza, le dimensioni e l’eccessivo accostamento delle lettere incise su diciassette righe, molte per uno spazio così esiguo, da un lato l’hanno preservata per circa 140 anni, dall’altro lato non hanno facilitato la traduzione del testo in latino che, per le numerose abbreviazioni, sarebbe comunque stata enigmatica anche per i più curiosi e ostinati competenti. Diverse volte ero stato attratto da quella scritta. Prima di sfuggita, considerandola solo una comune lastra di marmo bianco, poi come un piccolo particolare delle tante foto del chiostro, poi per lo studio della storia del Collegio, ma per tutti i motivi sopra elencati avevo sempre rinunciato a occuparmene. Sino a quando la tecnologia, con l’acquisto di una nuova e più potente macchina fotografica, la disponibilità di più tempo libero perché da qualche mese in pensione, la curiosità e la passione per la storia del mio paese, sono venute a contatto con due persone veramente speciali. A questi due amici, uno conosciuto per caso mentre approfondiva le notizie sugli Starrabba, fondatori del suo paese, Pachino, l’altra, cugina del primo e consultata dal medesimo, appena ho chiesto il loro aiuto per la traduzione, per me impossibile, si sono generosamente prodigati a tal punto da venirne a capo dopo averle dedicato non poco del loro tempo. Ovviamente, per facilitare il loro arduo compito, ho dovuto inviare loro, a più riprese, diverse foto sempre più particolareggiate, insieme alla storia dei monasteri piazzesi, in particolar modo francescani, dai quali sono arrivati la maggior parte dei volumi raccolti nella biblioteca, per chiarire il contesto in cui s’inseriva la Bolla Pontificia. Ebbene, dopo qualche settimana finalmente è arrivata la sotto riportata traduzione:
<<COMPENDIO DELLA BOLLA
IL PONTEFICE PAPA PAOLO V AI FRATI MINORI RIFORMATI
Dal momento che, così come espose a Noi, da recente, il diletto figlio Bernardino de Randazzo, riformatore dell’Ordine dei Frati Minori Osservanti, del Regno di Sicilia, le biblioteche di Piazza, nei conventi di San Pietro e di Santa Maria di Gesù, dei frati del medesimo Ordine, fornite di varii libri ad uso e prestito degli stessi frati, vengono saccheggiate, ben disposti alle suppliche, presentate a Noi umilmente, in nome del citato Bernardino, di provvedere alla conservazione dei medesimi libri, affinché in seguito, coloro i quali, servendosi di qualsivoglia autorità, sotto qualsivoglia pretesto o ricercato motivo, e per qualsiasi causa, ragione o occasione, osino o presumano di sottrarre, dalle menzionate biblioteche, libri, quinterni, fogli, sia stampati sia manoscritti, donati e assegnati, fino ad oggi, alle suddette biblioteche, sia quelli che in futuro probabilmente si dovranno donare e assegnare oppure coloro i quali (osino o presumano) di prestarli ad altre persone, anche se abbiano intenzione di restituire in un secondo momento i medesimi libri oppure (osino o presumano) di consentire che vengano sottratti e vengano prestati, in virtù della (Nostra) autorità apostolica, secondo il tenore delle norme vigenti, Noi proibiamo e vietiamo (ciò), sotto pena di scomunica e di privazione della voce attiva e passiva. Date a Roma presso Santa Maria Maggiore, sigillate con l’anello del pescatore il giorno 20 novembre 1618 nel XIV anno del Nostro pontificato. Sigillo del Cardinale di Santa Susanna>>

Dopo le lamentele presentate a Roma dal frate francescano osservante-riformato Bernardino de Randazzo(7), il pontefice Papa Paolo V, nato Camillo Borghese (1552–1621, Papa dal 1605), decise di emanare la suddetta Bolla, da affiggere probabilmente presso la biblioteca del convento di S. Pietro(8) dei Frati Minori Riformati(9), essendo questo più prossimo al paese e quindi molto più frequentato dell’altro, per regolare, avvisare e ammonire, una volta per tutte, coloro i quali avessero avuto relazioni, per qualsiasi motivo, con i libri presenti nelle biblioteche dei due conventi(10). La Santa Sede, consapevole dell’assoluto valore di quel patrimonio manoscritto e librario, venuta a conoscenza dei pericoli di “saccheggio” che potevano abbattersi su quei gioielli della cultura, vietava a chiunque la sottrazione e il prestito di tutti i volumi, anche di quelli che sarebbero stati acquisiti in futuro. L’ammonizione valeva anche per chi stava ai livelli più alti nella scala dell’autorità ecclesiastica (provinciali, abati, priori) che non avrebbe controllato, per negligenza, gli eventuali abusi. Per indurre ad un più responsabile utilizzo dei libri il Pontefice, attraverso il suo Cardinale bibliotecario, intimava la più grave delle pene che possa essere comminata a un battezzato: la scomunica, che lo escludeva dalla “comunione dei fedeli” privandolo di tutti i diritti e i benefici derivanti dall’appartenenza alla Chiesa, in particolare quello di amministrare e ricevere i sacramenti. E come se questo non bastasse, il trasgressore sarebbe stato privato della voce attiva e passiva, perdendo così il diritto di essere elettore o eleggibile nelle assemblee (capitoli) di religiosi di cui faceva parte(11). La Bolla si chiudeva con le disposizioni di consegna, subito dopo era indicato il luogo di emissione, la Basilica di Santa Maria Maggiore, una delle quattro basiliche papali di Roma. Seguiva specificando il tipo di sigillo papale applicato: l’anello del pescatore, cioè l’anello fabbricato in oro esclusivamente per quel pontefice, del quale riportava il nome inciso intorno a un bassorilievo di San Pietro che pesca da una barca, perché il suo mestiere era il “pescatore”. Poi la data (20 Nov. 1618), l’anno del pontificato (XIV) e per finire un altro sigillo, quello di un cardinale. Ma questi non veniva indicato col vero nome, bensì col titolo cardinalizio ricevuto al momento della nomina, Cardinale di Santa Susanna. Quest’ultima é una delle chiese più antiche di Roma ed è diventata, dal 112 d.C. con Papa Evaristo, un titolo concesso a un cardinale, ovvero il suo nome e le sue proprietà vengono legati a un cardinale al momento della sua creazione, sino alla sua morte. Alla data del documento pontificio in questione, il Cardinale di Santa Susanna(12) era il viterbese, dal 1615 custode dell’Archivio di Castel Sant’Angelo, Scipione Cobelluzzi (1564-1626) che, nel febbraio 1618, era stato nominato da Papa Paolo V, Cardinale Bibliotecario.
Questa indagine accurata su un “pezzo di marmo bianco” scolpito quattro secoli fa, trascurato da tante generazioni di Piazzesi e collocato da un secolo e mezzo in uno degli edifici più importanti della città, ci deve far riflettere su quanto siamo consapevoli di quello che ci hanno lasciato nei secoli i nostri antenati e di quanti di questi pezzi di marmo, distribuiti per il paese, conosciamo i motivi per i quali sono stati incisi e che hanno visto come incisori i nostri trisavoli. Checché se ne dica, dobbiamo renderci conto che noi siamo il risultato di quello che erano i nostri progenitori, e che i nostri discendenti saranno il risultato di quello che siamo noi. Per questo non dobbiamo trascurare la nostra storia, perché senza memoria non avremo un futuro. Prof. Gaetano MASUZZO, marzo 2012

Si ringraziano la prof.ssa Carmela La Bruna di Catania e il prof. Antonello Capodicasa di Portopalo di Capo Passero, che mi hanno aiutato in maniera determinante nella traduzione dell’epigrafe.
Note: (1) Dopo quelli di Città Militare del 1148, Deliziosa del 1234 e Civitas Opulentissima del 1517.
(2) Corte Giuratoria o Amministratori Comunali.
(3) In “I luoghi della Memoria Scritta, Le Biblioteche Italiane fra Tutela e Fruizione”, internetculturale.it
(4) Fino a non molti anni fa era ancora possibile leggere sopra la porta d'ingresso della biblioteca dell'abbazia di Casamari (in territorio del comune di Veroli, prov. Frosinone) questa iscrizione: “Avvertenza: per tutti quelli che estraggono o trafugano libri spettanti a questo Ven. Monastero senza licenza dei superiori, v'è la scomunica da incorrersi ipso facto”.
(5) Dal tardo XVIII secolo il sigillo di piombo fu sostituito da un timbro di inchiostro rosso dei Santi Pietro e Paolo con il nome del Papa regnante circondante l’immagine.
(6) Alceste, avvocato, patriota e grande cultore della storia di Piazza, 1830-1907 (L. Villari, Storia (breve) di Piazza Armerina, 1995, p. 83) o 1827-1908 (quadro esposto in Municipio). Remigio, notaio, sindaco della città e poeta in lingua dialettale, 1829-1916.
(7) A proposito del “diletto figlio Bernardino de Randazzo, riformatore dell’Ordine dei Frati Minori Osservanti, del Regno di Sicilia,” in tutti i libri in mio possesso è riportato, in un atto amministrativo del 1655, solamente un fra Bernardino da Piazza, ma dei Frati Minori Conventuali, non degli Osservanti (Villari, Storia Ec., 1988/1989, p. 230).
(8) In Villari, 1988/1989, p. 253.
(9) I Frati Minori Riformati erano sempre Frati Francescani della regola dell’Osservanza ma che, con la Bolla Papale del 1532, avevano ottenuto il diritto di ritirarsi in conventi per osservare la “Regola” in maniera ancora più rigorosa.
(10) Il convento di S. Maria di Gesù fu fondato nel 1418 dal beato frate francescano osservante Matteo De Gallo di Agrigento, poi vescovo di Agrigento, e ben presto divenne Seminario di Santità, nel 1622 anche Seminario di Dottrina degli Osservanti Riformati. Quello di S. Pietro fu fondato nel 1502 dal frate francescano laico (ovvero del Terzo Ordine Secolare) Ludovico da Caltagirone.
(11) Da qui l’espressione dell’uso corrente avere (o non avere) voce in capitolo, avere autorità, facoltà di intervenire in decisioni, di fare sentire il proprio parere. Nel mondo ecclesiastico: durante “i capitoli” o le riunioni dei monaci o dei frati della congregazione religiosa.
(12) Fu nominato Cardinale il 19 Settembre 1616, mentre il titolo di Santa Susanna gli fu dato un mese dopo, il 17 Ottobre 1616.

Bibliografia
- Archivio Segreto Vaticano:
http://www.archiviosegretovaticano.va/scipione-cobelluzzi-1618-1626.
- Biblioteche Ecclesiastiche in “I luoghi delle Memoria Scritta, Le Biblioteche Italiane fra Tutela e Fruizione”: http://www.parodos.it/news/biblioteche.htm.
- Di Rosa Placa A. - Muscarà M., La chiesa di San Pietro Pantheon di Piazza Armerina, Ed. Lussografica, Caltanissetta, 1999.
- L’Enciclopedia Libera: http://it.wikipedia.org.
- Villari L., Storia di Piazza Armerina, Ed. Penne & Papiri, Latina, 1995.
- Villari L., Storia della Città di Piazza Armerina, Ed. La Tribuna , Piacenza, 1981.
- Villari L., Storia Ecclesiastica della Città di Piazza Armerina, Società Messinese di Storia Patria, Messina, 1988/1989.

Foto
Masuzzo Gaetano

cronarmerina.it

 

 

 


 

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Dedicato ai pellegrini

L'ingresso alla chiesa di Santa Maria di Piazza Vecchia

L'anno scolpito sul pilastro centrale dell'ingresso alla chiesa

Se in questi giorni doveste andare in pellegrinaggio alla chiesa di Santa Maria di Piazza Vecchia, date un'occhiata all'anno scolpito sul pilastro centrale dell'ingresso (nel rettanglo arancione foto in alto). Per tanti anni era passato inosservato ma nel maggio dello scorso anno, l'occhio clinico superallenato che ormai mi ritrovo, mi ha fatto scoprire l'incisione nella foto in basso. Buon pellegrinaggio sia all'andata (domenica 24 aprile) alla volta della Chiesa degli Angeli, che al ritorno martedì Tré d' Màiu con relativa scampagnàda. A proposito di questa ricorrenza, eccovi alcuni versi della poesia del poeta Pino Testa:

U TRÉ D' MÀIU

[...]

Ma U Tré d' Màiu, pr' mì era l'evént'

ch' m' 'ncastràva na giurnàda,

o ghh'éra témp böngh' o témp' tént',

nan mâ p'rdéva mai sta scampagnàda.

 

Darréra dû st'nnàrd dâ 'V'gnéra',

cû m'caör' ô codd' e u brannunétt',

griàva 'nzému a l'autri na prièra

cu tutta a vösg' ch' ggh'éra nû mi pétt'.

[...]

"Ma quant' è ten'ra sta cauda càlia,

t' squàgghia 'mböcca, chi béu t'rröngh'!

Pupi d' zzuch'r'... còsi di vaglia...

dama ch'è l'urt'ma dû caudaröngh'!"

Pino TESTA

(P'nz'ddiadi, Poesie in galloitalico piazzese, AGS, P. Armerina 2006)

 

Traduzione

IL TRE DI MAGGIO

[...]

Ma il Tre di Maggio, per me era l'evento

che mi occupava tutta una giornata,

o c'era tempo bello o tempo brutto,

non mi perdevo mai questa scampagnata.

 

Dientro lo stendardo della Vergine,

col fazzoletto al collo e il cero,

gridavo insieme agli altri una preghiera

con tutta la voce che c'era nel mio petto.

[...]

"Ma quanto sono teneri questi ceci abbrustoliti,

ti si sciolgono in bocca, che buon torrone!

Pupi di zucchero... cose di valore...

dammela che è l'ultima del calderone!".

cronarmerina.it

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