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Cronarmerina - Dicembre 2015

L'abito dei Carmelitani/1

Santo imberbe carmelitano, Masaccio 1426
 
AD 1254, fine estate, Francia, Luigi IX, che passerà alla storia come "il Santo", torna a Parigi dopo sette anni vissuti pericolosamente: ha perduto una crociata... ha subìto una pesante prigionia... ha trascorso gli ultimi quattro anni in Terra Santa... Nonostante ciò, il Re può ugualmente rientrare a testa alta: è il campione indiscusso della cristianità occidentale... Luigi varca dunque la soglia della città, ma immediatamente gli echi della festa sono turbati da un crescendo di cori di lazzi e ingiurie che montano man mano che il corteo procede... Presto, tirando un sospiro di sollievo, il nostro eroe si rende conto che l'oggetto della derisione non è la sua persona, bensì un gruppo di strani figuri che aveva deciso di annettere tra le proprie fila. Luigi, infatti, ha portato con sé alcuni esponenti dei nuovi ordini monastici, tra cui i frati dell'ordine della Madonna del Carmine. Questi religiosi traggono il loro nome dall'insediamento di alcuni eremiti che nel corso del XII secolo elessero il monte Carmelo in Palestina come luogo di preghiera e di ascesi... finché il Patriarca di Gerusalemme non concede loro una regola nel 1209, dando inizio alla fondazione di un nuovo ordine... Le difficoltà dello stato latino di Gerusalemme spingono questi monaci ad abbandonare la Terra Santa e ad aggregarsi a Luigi... E proprio i Carmelitani, o meglio il loro mantello, sono l'oggetto dello scherno. Infatti l'indumento ha una decorazione a righe bianche e brune e, più raramente, bianche e nere. Questo perché, secondo la tradizione, la cappa sarebbe l'esatta copia di quella che il profeta Elia, ascendendo al cielo sul suo sfavillante cocchio di fiamme, avrebbe lanciato a Eliseo, suo discepolo: il grande drappo bianco sarebbe rimasto marchiato da tracce nere in corrispondenza dei punti in cui le fiamme ne lambirono il passaggio. (da G. Staffa, 101 Storie sul Medioevo, Newton Compton Ed., ROMA 2012). (continua)
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Famiglia Iaci al Carmine

Lo stemma della famiglia Iaci di Magnini e Feudonuovo
L'altare della Crocifissione
Questo è l'altro stemma che ho notato l'altra sera nella chiesa del Carmine. E' quello della famiglia piazzese Iaci baroni di Magnini e Feudonuovo. Lo stemma "d'azzurro al leone d'oro tenente con la branca anteriore una palma" è lo stesso che si trova sull'arco del portone d'ingresso del palazzo di famiglia in via Vittorio Emanuele (di fronte la farmacia Gurreri), costruito nel 1650 dal duca Desiderio Sanfilippo, uno dei due soli duchi avuti nella nostra Città. L'altare del Carmine, dove è situato lo stemma Iaci, è il secondo da sx, quello dedicato alla Crocifissione.
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1943 - Lo sbarco depistato

10 luglio 1943, lo sbarco degli Alleati in Sicilia
Era il 10 luglio 1943. Alle 2:45 (alle 4:45 presso Licata), dopo un pesante bombardamento navale, i primi reparti d'assalto alleati presero terra sulle spiagge dell'estremo lembo sud-est della Sicilia, nella zona di Capo Passero. Appoggiata da 3.200 navi e centinaia di aerei, scattò l'OPERAZIONE HUSKY, l'invasione della Sicilia da parte degli anglo-americani, che dal maggio del 1942 erano padroni del Nordafrica. In effetti fu una sorpresa, grazie all'inganno della quasi sconosciuta OPERAZIONE MINCEMEAT. Con questa operazione "carne trita", pensata nell'ottobre 1942 da un ufficiale del Servizio Segreto navale britannico (Ewen Montagu), le truppe tedesche sull'Isola furono ridotte all'osso. Infatti, l'operazione col bluff iniziò a fine aprile 1943 quando alcuni pescatori recuperarono nel golfo di Cadice il corpo del maggiore della Royal Marines britannica William Martin, in realtà un senzatetto di 34 anni suicidatosi con del veleno per topi, con addosso due lettere personali che i tedeschi, avendole solertemente ricevute dalla polizia segreta spagnola allora "neutrale", valutarono come documenti chiave. Questi velatamente parlavano di operazioni da sbarco in Grecia e Sardegna con un finto attacco diversivo in Sicilia. Grecia e Sardegna, non distanti dal Nordafrica dove erano presenti le truppe alleate, erano strategicamente plausibili come obiettivi: invadere la Grecia, oltre ad aprire un nuovo fronte, poteva essere un modo per tagliare i rifornimenti alle truppe tedesche in Urss e la Sardegna era una buona base per attaccare Corsica e Francia del Sud. Galvanizzati dalla scoperta, i tedeschi (va detto: contro il volere degli italiani) rinforzarono in tutta fretta le difese in quei luoghi e spostarono molte forze: divisioni corazzate dalla Francia, reparti di siluranti, reparti aerei (proprio dalla Sicilia fu inviata in Sardegna la seconda flotta aerea, la Luftflotte 2). La "carne trita" era stata mandata giù con gusto dai tedeschi. Lo sconcerto fu totale, ma i combattimenti furono ugualmente durissimi e in 39 giorni la Sicilia fu conquistata. Fu il primo importante passo per la liberazione dell'intera Europa. Gela fu conquistata alle 14 del 12 luglio dagli americani della 1^ Divisione e Rangers dopo aver affrontato i tedeschi della Divisione Hermann Goring e gli italiani della Divisione Livorno. La battaglia di Sicilia si concluse con questo bilancio: sugli oltre 250.000 soldati italiani presenti al momento dell'invasione ci furono più di 5.000 morti, circa 50.000 riuscirono a passare lo stretto e il resto si disperse in Sicilia; sui 50-60.000 tedeschi si contarono 5.000 morti, 15.000 feriti e 5.000 prigionieri. Le perdite fra gli alleati ammontarono a 22.000 uomini tra morti e feriti. Solo a Gela gli alleati perdettero, tra morti e feriti, circa 1.000 uomini, ma catturarono 18.000 prigionieri. Dietro a ogni singolo "numero" si consumò una tragedia che naturalmente si estese alle loro famiglie, che per decenni ne piansero le conseguenze. Anche per la popolazione civile fu un evento terribile e indimenticabile, se non mortale. cronarmerina.it 
 
*Tratto da Operazione Mincemeat in Focus STORIA, luglio 2013.  
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Nella nebbia

 

Sensazioni

 
Il paese è avvolto nella nebbia.
Non si vede nulla 
oltre quella panchina
scalfita da mani ignote
e innamorate.
 
Senti i capelli inumidirsi
come i tuoi occhi.
La mente cupa,
come questa piazza,
si apre a dolci ricordi.
 
Si avvertono strane sensazioni
in questa apparente solitudine
e intanto ti avvicini piano a quella panchina. 
La vedi graffiata da tanti segni, tanti nomi;
non c'erano prima!
 
Altre mani si sono sovrapposte 
alle prime, altre date.
N'è passato di tempo!
 
Febbraio 1986           Sergio Piazza
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Sodalizio dei Falegnami

Chiesa di S. Giuseppe dove si riuniva il Sodalizio
Sodalizio dei Falegnami
Nella nostra Città un altro Sodalizio con tanti iscritti fu quello dei Falegnami e degli Ebanisti, che come punto di raccolta e di riferimento aveva la chiesa di S. Giuseppe, lungo la strata di la carrera oggi via Mazzini. I falegnami sono quegli artigiani che lavorano il legno per la fabbricazione e riparazione di mobili, infissi e altre suppellettili. In passato l'attività era associata esclusivamente al lavoro in bottega o, raramente, in piccole aziende come le segherie. Gli ebanisti o ebanisti mobilieri sono, invece, quei falegnami specializzati nella lavorazione di legni pregiati (una volta veniva usato esclusivamente l'ebano, da ciò il termine) che possiedono la conoscenza delle varie tecniche di intaglio, quando si utilizzano svariate qualità di legno, e di intarsio, quando si utilizzano anche altri materiali, come l'avorio. A Piazza questi artigiani erano numerosissimi e quando gli iscritti al Sodalizio, per la festa di S. Giuseppe, si mettevano in doppia fila parallela tenendo il cordone blu, arrivavano sino in Piazza Garibaldi. Sino agli anni 40 questi artigiani usavano esclusivamente l'olio di gomito ovvero i muscoli delle braccia. Era rarissimo trovare una bottega che usasse macchinari elettrici come la sega a nastro, la pialla, la tupia (dal francese toupie = fresatrice), sia perché l'elettricità non era tanto diffusa e sia perché molto costose. Per questi motivi, ma soprattutto per il secondo, qualche falegname un po' più inventivo e ingengnoso degli altri (come mio padre Gino nel dopoguerra), si spingeva nella creazione, in maniera del tutto "artigianale", degli attrezzi sopra elencati all'80% in legno di noce o samuchèdda (acacia), rovere, pero, olmo, perché le parti non in legno erano rappresentate soltanto dal motore, dall'asse e dai cuscinetti a sfera. Quando si riusciva nell'intento, era quasi incredibile per le troppe difficoltà che si erano dovute superare, sia nel reperire i pezzi meccanici, allora introvabili, sia nella messa a punto, perché un errore significava rischiare la perdita di qualche parte del corpo, specie quelle più distali degli arti. Il risvolto economico era importante, ma per questi artigiani contava molto di più la soddisfazione di vedere a distanza di anni un loro manufatto in condizioni tali da svolgere ancora perfettamente la funzione per la quale era stato creato, per esempio era un vanto vedere ch' 'na porta nan era p' nènt strammàda. Nei prossimi post saranno elencati gli 80 nomi dei vecchi e dei nuovi falegnami.
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Cripta al Carmine

La cripta che si scorge all'ingresso, sotto il vetro
Appena si entra nella chiesa del Carmine si scorgono dal vetro sul pavimento i resti della cripta. Le cripte nell'architettura medievale sono camere ricavate sotto i pavimenti delle chiese, destinate al trattamento dei cadaveri, rispondenti ai rituali caratterizzati dalla concezione della morte come passaggio prolungato. Ovvero, dopo la morte si adottano vari sistemi affinché le parti molle del corpo vengano trasformate in qualcosa di immutabile e duraturo come le ossa o la mummia, per consegnarlo all'eternità del sepolcro definitivo regolandone nei migliori dei modi la putrefazione. Il sistema adottato nella cripta del Carmine è quello chiamato dei colatoi a seduta, noti a Napoli come cantarelle e diffusi in tutto il meridione d'Italia, mentre l'altro tipo, colatoio orizzontale, è diffuso prevalentemente in Sicilia. La cripta mostra lungo le pareti una serie di nicchie provviste di sedili in muratura ciascuno dotato di un foro centrale. Il cadavere del defunto, di solito un frate del convento o un nobile frequentante e in stretta relazione con l'edificio religioso, era collocato in posizione seduta in modo da far confluire i liquami, prodotti dalla putrefazione, direttamente all'interno del foro collegato ad una canaletta di scolo, circondata da sabbia per eventuali fuoriuscite. Nello stesso ambiente erano presenti (qui completamente sparite) l'ossario e alcune mensole in muratura. Una volta terminato il processo di scolatura, lasciando così le ossa libere dalla parte putrescibile, il cranio, simbolo dell'individualità del defunto, era posizionato sulla mensola, le altre ossa venivano spostati nell'ossario. In questo modo il ciclo funerario, iniziato con la morte dell'individuo, si concludeva con la sua scheletrizzazione, ed aveva una durata che poteva variare sensibilmente da un minimo di pochi mesi a un anno e più, in conseguenza delle condizioni climatiche dell'ambiente sepolcrale e della stagione della morte. Fin quasi allo scadere dell'Ottocento, contemporaneamente agli sforzi dell'autorità di governo di istituire camposanti in periferia, le élite considerarono l'esposizione del corpo mummificato come una forma per conservare l'individualità fisica del defunto e manifestare oltre la morte il suo status sociale. Prima della nascita dei camposanti monumentali, luoghi di memoria e di consolazione che avrebbero consentito la visita alla tomba individuale, il corpo mummificato costituì il monumento funebre da offrire alla vista e alle preghiere dei viventi. Gaetano Masuzzo/cronarmerina
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I f'rrètti

Gioco praticato esclusivamente dai maschi, salvo qualche rara eccezione, per strada, meglio se no curtìcch (nel cortile). L'attrezzo indispensabile era formato da due pezzi di legno, uno quasi il triplo dell'altro, quest'ultimo con le estremità appuntite per permetterne il sollevamento da terra una volta colpito dall'altro, per poi ricolpirlo al volo. Lo potevamo considerare un misto tra i giochi del baseball e del cricket, anche se con regole diverse. L'obiettivo principale era quello di conseguire più punti dell'avversario. I punti erano determinati da quante volte il ferrètto più grande, in possesso da chi era in base, copriva la distanza tra la base (di solito un grande sasso) e il ferrètto più piccolo, più lontano si lanciava questo più erano i punti da contare. Il gioco iniziava col lancio del legno piccolo verso la base, se non veniva colpito al primo lancio il giocatore in base veniva eliminato e i ruoli s'invertivano. Stessa eliminazione avveniva se il legnetto colpito era recuperato al volo dal lanciatore, con le mani o aiutandosi con qualche indumento (il guantone nel baseball). Se il legnetto invece cadeva a terra, da quel punto il giocatore della base aveva diritto a colpire col suo legno grande quello piccolo, alzandolo e colpendolo al volo. Questa operazione si effettuava per tre volte, alla fine si contava la distanza tra la base e il legnetto piccolo mettendo quello grande per terra, di seguito. Tutto filava liscio sino a quando il primo lanciatore, e vi assicuro avveniva spesso, non pronunciava la famosa frase "SPÙT'LA C'È CÒSA!". Ovvero con questa frase (io sputo sul ferrètto più piccolo, in maniera più che evidente a tutti i giocatori e non, per cautelarmi da ogni contestazione che potesse nascere durante l'azione di gioco, per mio o altrui errore) ci si metteva a riparo da ogni problema. Invece, il più delle volte, era il finimondo! Il gioco, oltre a quelle volte che degenerava in rissa, in genere era un po' pericoloso. Infatti, se il giocatore in base era uno molto esperto, il ferretto piccolo colpito violentemente poteva causare con le estremità appuntite seri danni agli altri che giocavano o soltanto assistevano, per non parlare dei vetri alle finestre prospicienti "il campo da gioco". Ora che ci penso, era veramente raro vedere nei paraggi animali domestici assistere al gioco, chissà perché?
Questo gioco in Italia prende i seguenti termini:
A màsa, il pìndoeo, il ciàncol e el sciànco nel Veneto; a lìppa in Liguria; a nìzza nel Lazio; u ciàc't in Puglia; u pìzzu o a pìzzica in Calabria; a màzza e o pivèzo in Campania.
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Famiglia Naselli

D'azzurro alla fascia d'oro sormontata da un leone nascente in oro e accompagnata in punta da tre palle d'oro.
La famiglia Nasitto poi Naselli scende dal nord Italia, forse da Piacenza, al tempo di Federico II di Svevia nel 1234 ca. Nel 1296 troviamo a Plasia Nicola Naselli (appartenente a un ramo cadetto di Liutprando re dei Longobardi nell'VIII sec.) che ha ottenuto il feudo Mastra (tra Mazzarino e Riesi). La famiglia vive per tutto il '300 e il '400 nella nostra Città, sino a quando si insignisce di Comiso nel '500. 1408 e 1421 Riccardo, figlio di Pietro, possiede il feudo Mastra e, nel 1416, è Cavaliere Ospedaliere di Malta. 1416 i Naselli sono tra le quattro famiglie di grandi feudatari della nostra Città che fanno parte del braccio militare del Parlamento del Regno. 1422 Bernardo è Cavaliere Ospedaliere. 1438 da re Alfonso V d'Aragona Pericono (alias Perricone, Periconio) de Naselli riceve in feudo l'Ufficio del notariato della Curia del Capitano della Terra di Plazza. Ottiene anche l'esenzione da collette, tasse, donativi e gabelle per sè, per il padre, per i fratelli Giovanni e Ruggero e per tutti gli eredi maschi, oltre alla facoltà di portare qualsiasi arma e nel 1455 diventa barone di Comiso. Nel 1439 Valeriano e nel 1467 Coriolano sono Cavalieri Ospedalieri. 1492 Pietro Antonio, barone di Comiso e Mastra, è Secreto della Città (riscuoteva le gabelle e i dazi) e fa edificare l'abside della chiesa di S. Francesco a Comiso per destinarla a cappella funeraria per la propria famiglia. Nel 1500 i Naselli pur mantenendo nel nostro territorio il loro feudo Mastra, si trasferiscono prima a Comiso e poi ad Agrigento, dove li troviamo in strenua lotta contro i Montaperti. 1556 Naselli Baldassare II è barone di Comiso e Mastra (è seppellito nella chiesa di S. Francesco a Comiso a sx nell'abside). 1598 Baldassare III è conte di Comiso e di Mastra e nel 1605 ottiene la licentia populanti per il suo feudo di Diesi fondando il paese di Aragona (vicino Agrigento), dandogli il nome della madre Beatrice d'Aragona. 1621 Luigi è conte di Comiso e di Mastra, nel 1625 è nominato principe di Aragona e nel 1640 ca. viceré della provincia di Cosenza. 1634 i Naselli vendono il loro feudo di Mastra ai Miccichè. 1674 Baldassare IV è conte di Comiso e Vicario della Milizia di Agrigento, Licata, Platia e Caltagirone. 1713 Francesco è barone di Bugidrano (presso Niscemi). 1790 ca. Diego è barone di Bugidrano e nel 1819 è luogotenente generale borbonico che fugge a Napoli. Gaetano Masuzzo/cronarmerina.blogspot.it
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Crescimanno al Carmine

Stemma Fam. Crescimanno
Primo altare a dx
Tra i tanti stemmi che sono presenti nella chiesa del Carmine, due hanno attratto maggiormente la mia attenzione lo scorso giovedì. Uno è quello nella foto in alto, lo stemma della Famiglia Crescimanno "Un leone in piedi d'oro traversato da una sbarra d'oro in campo azzurro" di cui ho già parlato su questo sito domenica 7 aprile. Lo stemma è posto in alto sull'altare dedicato al primo Santo dell'Ordine carmelitano Sant'Alberto Abate (1250-1307) che, insieme a Sant'Angelo da Licata (1185-1225), nell'altare di fronte, secondo la tradizione abitarono nella nostra Città. Le reliquie del primo Santo riposano nella cappella a lui dedicata nella chiesa di San Francesco al Monte, sede dell'antica chiesa di Santa Lucia che accolse il primo convento carmelitano nella prima metà del XIII secolo. Per l'altro stemma vi rimando a un'altra occasione.
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Crastöi e Aìri

U crastöngh
 
L'aìr (cantareus apertus)*

Nei pomeriggi d'estate di tanti anni fa, quando ancora eravamo bambini, in agosto se ricordo bene, qui a Piazza, ai primi temporali che incominciavano a rompere la calura estiva, mio nonno era solito dirmi: "Duman mattinu prestu cu a fr'scùra nèscnu i crastöi e macàri truvamu l'aìri!". Per me che ero già sin da allora innamorato di questo luogo, era un'occasione per respirare aria di eucalipti al mattino presto e, nel frattempo, cercare tra l'erba ancora bagnata queste grosse lumache marroni e anche nere. Quanta strada si faceva per trovarne un cesto piccolo! Si partiva presto verso le 5 e mezza e si tornava alle 8 e mezza. Queste lumache buonissime, si trovano alle prime acque ma bisogna setacciare per bene l'erba e le frasche in base alla zona. Perché ci sono punti di terreno dove si mimetizzano bene, lasciando però dietro di loro una schiuma biancastra. Arrivati a casa, mia nonna o mia madre le mettevano a spurgare per farli "scaricare". Poi si cucinavano a fuoco lento nell'acqua calda per farle uscire dal guscio, in ultimo si aggiungeva la salsa e l'aglio e niàutri n' r'criàv'mu! Roberto Lavuri

* Un visitatore che si firma Claudio P. ci ha fatto notare come l'aìr (cantareus apertus) è quello in questa foto e non in quella precedente. Inoltre nei commenti si parla dell'uso che se ne faceva per curare una malattia molto grave, con un tasso di mortalità del 100 % tra i bambini e gli anziani. Gaetano M. 

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